L’ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli parla della duplice eredità, politica e giuridica, del caso che ha diviso l’Italia. Mentre Eluana Englaro, che si è spenta nella serata di lunedì, è stata sottoposta nella giornata di ieri ad autopsia, non si placano le polemiche legate allo scontro istituzionale tra governo e Quirinale, dopo la mancata firma del Capo dello Stato al decreto presentato venerdì scorso in Cdm per salvare la donna. «Il decreto? Dava una sorta di “moratoria di garanzia”, in attesa di un provvedimento legislativo più completo e organico. La Costituzione? Occorre fare attenzione, ma non è un “monumento” intoccabile». Ma in vista di una prossima legge, dice il costituzionalista, occorre che il principio fondante, la dignità della vita, non finisca alla mercé dell’arbitrio.



La morte di Eluana Englaro ha lasciato una pesante eredità politica: un conflitto tra i poteri dello Stato. L’esecutivo ha preteso annullare per decreto quanto stabilito in via definitiva da un tribunale?

Anzitutto è opportuno che questo conflitto sia archiviato e si torni al più presto ad un clima di cooperazione tra le istituzioni. Non va enfatizzato e ulteriormente suscitato. Per venire al contenuto del decreto e del ddl – le mie osservazioni di sostanza valgono per entrambi – a mio modo di vedere non c’è alcun conflitto con l’ordine giudiziario e con una sentenza. Non confliggono, in altre parole, con il decreto della Corte d’Appello di Milano – che autorizzava e non imponeva di togliere il sondino nasogastrico – perché si tratta in questo caso di un provvedimento di volontaria giurisdizione, e tutti i provvedimenti di volontaria giurisdizione sono modificabili e revocabili.



Come interpretare allora il senso del decreto di venerdì, quello che il Capo dello Stato ha fatto sapere anticipatamente di non voler firmare?

Il decreto dava una sorta di “moratoria di garanzia”, cioè dava una “disciplina ponte” in attesa di un provvedimento legislativo più completo e organico, che poteva contenere anche elementi di carattere tecnico e garanzie sanitarie. Nulla a che vedere quindi con la nullificazione di una decisione giudiziale.

Lo scontro istituzionale ha scatenato un dibattito sull’attualità della nostra Costituzione.

La nostra Carta a mio modo di vedere è solida e organica. Perciò va considerata sia per le sue disposizioni di principio sia per la sua struttura portante. Questo non significa che non ci possano esser delle modifiche, come ce ne sono state in passato, anche incisive: per esempio leggi costituzionali che hanno riformato l’assetto regionale delle autonomie. Direi che non è un “monumento” intoccabile, ma che al tempo stesso occorre fare attenzione a metterci le mani, perché a volte si possono avere effetti non conformi a quello che si auspicava. E toccare qualche aspetto perdendo di vista l’insieme può determinare inconvenienti.



Qual è, invece, “l’eredità giuridica” del caso Englaro?

La vicenda della povera Eluana ha messo a nudo problemi che riguardano sia aspetti giuridici sia aspetti sostanziali, perché ha interrogato, e interroga, le coscienze di tutti. Direi che occorre un approfondimento serio e onesto che non sia pregiudicato ideologicamente per i problemi che pone. Innanzitutto c’è l’esigenza di una disciplina legislativa in un settore nel quale sono troppe le incertezze e mancano punti di riferimento per la stessa giurisprudenza.

Qual è il tipo di contenuto che può essere dato a queste discipline?

L’articolo 32 della Costituzione è stato invocato spesso e giustamente per il consenso – e quindi anche il rifiuto – delle terapie. Ma va ricordato che l’articolo 32 dice anche che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. E la tutela della salute implica la tutela della vita. Il primo presupposto è che la Repubblica tutela la vita, come diritto dell’individuo ma anche come interesse della comunità. Il secondo passaggio è questo: che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario”…

Un diritto che, a detta di molti, è stato negato dalla volontà, tenacemente perseguita da parte di altri, di mantenere in vita Eluana.

È una disposizione a protezione della persona, inserita anche facendo memoria – siamo nel ’48 – di tutte le vicende che avevano portato a sperimentazioni mediche sulla persona anche contro la sua volontà, al pari di una cavia. Ci possono essere quindi trattamenti sanitari solamente se quelli previsti per legge siano obbligatori in un interesse che è anche interesse collettivo. È vero che c’è libertà nella scelta delle cure e non si può essere obbligati a un trattamento sanitario, ma bisogna andare oltre la formula e saper vedere la sostanza.

Cosa significa, in questo caso, “andare oltre la formula”? Il malato non può rifiutare cure che in ipotesi gli fossero dovute?

La libertà di scelta in questo settore è ancorata, come si afferma costantemente anche in documenti di carattere internazionale, al consenso informato. Non è un consenso “libresco”, astratto, ma un consenso ancorato ad un rapporto terapeutico tra medico e ammalato. Quindi è espresso nell’attualità delle situazioni, non ci può essere un consenso in qualche misura presunto. La libera scelta è ancorata ad un consenso informato attuale, con un’adeguatezza di informazione in rapporto al nesso citato che lega l’ammalato con il medico, in proporzionata conoscenza di quello che viene fatto e anche di una proporzionalità degli interventi che vengono proposti. È una cosa evidentemente diversa dall’accanimento terapeutico che è contro la persona.

Sta dicendo, in altre parole, che – data una serie di condizioni – il medico può non fare quello che il malato richiede…

La stessa Cassazione ha ritenuto che in pericolo di vita si possa procedere alla trasfusione di sangue anche se la persona coinvolta aveva lasciato scritto di non volere trasfusioni di sangue. La Cassazione ha ritenuto che poiché occorre il consenso informato questo non può essere anticipato ma successivo alla situazione che si verifica: posso, in astratto, dire che non vivrei mai in una determinata condizione, per esempio con l’amputazione di un arto, ma se mi trovassi di fronte alla scelta tra la vita e la morte potrei sopportare anche quel tipo di trattamento. Anche qui, sempre con un principio di proporzionalità e adeguatezza.

La vicenda di Eluana ha visto in primo piano il ruolo esercitato dai giudici. Quale riflessione le suggerisce questo fatto?

La creazione di un diritto giurisprudenziale è una tendenza che non riguarda solamente questo settore. È un accresciuto ruolo della giurisprudenza, qui più avvertito che altrove perché tocca aspetti più sensibili. Tale ruolo si espande quanto più vi è un’inadeguatezza della disciplina legislativa.

Il Parlamento poteva fare la legge subito dopo la sentenza della Cassazione?

Poteva farla anche prima. Serve in ogni caso una buona legge: attenta ai principi e di garanzia per il soggetto più debole.

Cosa auspica dalla discussione del ddl e poi dalla legge sul testamento biologico?

Occorre un superamento degli antagonismi istituzionali politici, e una disciplina saggia e breve. Poi che ci sia innanzitutto un’attenzione alla coscienza e quindi una riflessione comune su un punto così delicato. I nodi da sciogliere non sono moltissimi, ma sono determinanti. Il primo è senz’altro quello riguardante le modalità con le quali si può scegliere un trattamento sanitario. Il tema del consenso è delicatissimo quando esso non è nell’attualità ma è futuro: si apre il problema di quale dev’essere il grado di consapevolezza, della contestualizzazione, della valutazione di adeguatezza e proporzionalità – e quindi la possibilità per il medico di disattendere in ipotesi la richiesta quando, secondo scienza e coscienza, il trattamento fosse poco invasivo e non positivo per la persona. Facevamo prima l’esempio della trasfusione. L’indicazione di indirizzo deve essere netta e tenuta in seria considerazione ma distinta da una dichiarazione anticipata, che come tale ha sempre qualche elemento di fragilità. Su questo bisogna esser molto cauti e lasciar sempre uno spazio alla valutazione di proporzionalità tra l’intervento che deve essere fatto e il risultato che ci si attende.

L’alimentazione e l’idratazione si sono rivelati punti molto controversi e criticati.

Va chiarito se sono da considerare sostegno vitale o trattamento medico; se sono trattamento sanitario, dove – per le modalità con le quali sono erogate – cambiano natura. Un’ipotesi: il sondino fisicamente intrusivo ma non cruento è trattamento sanitario e perciò è diverso rispetto all’alimentazione fornita diversamente? C’è qualcuno che considererebbe trattamento sanitario intrusivo una flebo. Ma c’è un punto davvero sostanziale, che resta sulla sfondo di tutte le questioni e che mi pare che non sia preso nella dovuta considerazione.

A che cosa si riferisce?

Alla dignità della vita. Se si considera vita degna da proteggere e garantire solamente quella che assicura una vita di relazione o una qualità di vita determinata, si mette a rischio la stessa protezione della vita. Quando qualcuno dice “Eluana è morta 17 anni fa”, fa un’assunzione apparentemente “innocente” che però contiene una premessa culturale molto grave. Spesso mi chiedo se la Cassazione avrebbe pronunciato la medesima sentenza quando Eluana era all’inizio del coma o quando questo si era stabilizzato, dopo cioè due o tre anni. Se aggiungiamo una qualifica alla dignità della vita, cioè se essa debba avere un grado di consapevolezza e un grado di relazione che siamo noi a stabilire allora spostiamo “l’asticella” del valore personale collocandola irrimediabilmente al livello di criteri dettati dall’arbitrio. Sarebbe spiacevole se la dignità della vita venisse “nascosta” da tutta una serie di costruzioni concettuali, soggettive o anche formalmente e scientificamente fondate, ma che in tal caso rischierebbero davvero di far apparire tutte le soluzioni contraddittorie. Davvero allora non sapremmo dare più una risposta.