Con le dimissioni di Veltroni la resa dei conti all’interno del Pd è iniziata. In un partito “serio”, la pratica Veltroni sarebbe stata archiviata da mesi, da un anno. Da quando il segretario, dopo la sconfitta alle politiche (aprile 2008) aveva subito il secondo ko nella sua Roma, da Alemanno, poi. Il vizio assurdo del gruppo dirigente postcomunista, composto da berlingueriani doc, è stato quello di autoperpetuarsi col gioco dei tre cantoni o delle tre tavolette, alla faccia di qualsiasi sconfitta. D’Alema, Fassino e Veltroni hanno cambiato il nome al loro ex partito, ma rimanendo sempre al loro posto. In più, e in peggio, non hanno modificato la politica, non sono diventati socialdemocratici, non rappresentano cioè una sinistra di stampo europeo non avendo mai voluto fare i conti con la loro storia, con il liberalsocialismo craxiano, e infine con Berlusconi. Al contrario, sono andati avanti sull’onda di un antiberlusconismo demagogico e giustizialista, senza capire la valenza politica del ruolo del Cavaliere, capace di messaggi chiari e semplici, a volte anche semplicistici, ma pur sempre di grande presa e, soprattutto, in grado di legittimazioni popolari plurime.
Veltroni, che pure aveva seguito la strada maestra accettando il (quasi) bipartitismo invocato da un Berlusconi issato su un predellino in Piazza San Babila, mettendo così fuori gioco le estreme che avevano logorato il governo Prodi in egual misura con le procure scatenate contro l’allora Guardasigilli e la sua famiglia, ha tradito quello spirito bipartisan inventandosi il neo Caudillo Di Pietro. Un capolavoro, all’incontrario. La mancata riflessione sia sulla sconfitta del governo Prodi sia sull’emulsione del sostrato livido e limaccioso del dipietrismo come invidia sociale e odio forcaiolo, ha condotto il Pd prima alla disfatta in Abruzzo col boomerang della questione morale, poi a quella in Sardegna. Qui il Cavaliere ha realizzato, lui sì, il vero capolavoro, inventandosi un candidato a sua immagine,certo, ma col fiuto di chi aveva capito non tanto o soltanto i disastri della gestione Soru, quanto e soprattutto di cavalcare un’onda lunga. Che solo su errori gravi potrebbe infrangersi.
Il Pd, nel frattempo, è dilaniato da lotte intestine per via, anche, di una identità confusa e scivolosa, frutto di sommatorie e alchimie, con colpi bassi correntizi di cui le primarie a Firenze sono una testimonianza emblematica. Col ritorno degli ex Dc che, a quanto pare, stanno stendendo al tappeto, qua e là, in Romagna e in Toscana, nelle roccaforti comuniste, i candidati interni. Sembra quasi di assistere alla nemesi, come se i mancati conti con la storia presentassero al Pd una lista pesantissima di punizioni. E di frustrazioni. C’è chi evoca, nell’emersione dei diversi nuovi leader postdemocristiani alle primarie, la vendetta di Prodi, che non dimentica le responsabilità veltroniane per la caduta del suo governo. La vendetta è un piatto che si gusta freddo.