Consentitemi una piccola premessa personale: sono molto contento di scrivere queste righe per voi. Ricordo bene che quando ero direttore de Il Riformista, che pubblicava il vostro supplemento mensile, dopo qualche incomprensione iniziale abbiamo collaborato non solo correttamente, ma in spirito di amicizia. Segno che persone diverse per biografia, cultura, idee politiche e, se vogliamo, visione del mondo possono fare delle cose buone insieme, a condizione che si rispettino, non vogliano prevaricare o ingannare l’altro, e neppure cerchino impossibili incontri a mezza strada.



C’entra qualcosa, questo, con quel che va capitando nel Partito Democratico? Secondo me sì. E provo subito a spiegarmi. Personalmente, al Pd non ho mai creduto. Ero e resto convinto che la collaborazione tra un centro moderato democratico e una sinistra di ispirazione socialdemocratica sia il miglior equilibrio di governo (della società, non solo del Palazzo o di quel che ne resta) per il paese, ma non ho mai pensato che lo strumento per realizzare questa prospettiva sia il partito unico. E lasciamo da parte, per cortesia, le bubbole sulla confluenza dei diversi riformismi che hanno animato la storia d’Italia.



A confluire nel Pd sono stati, molto più prosaicamente, soprattutto i resti di due ceti politici, quello postcomunista e quello proveniente dalla sinistra democristiana, che per due anni hanno convissuto o come dei separati in casa o tendendosi l’un l’altro trappole e tranelli nella speranza di guadagnare domani il controllo pieno del partito, oggi tutte le (non moltissime) posizioni di potere conquistabili: nel suo piccolo la nostra convivenza, cari amici de Il Sussidiario, appare, al confronto, quasi un esempio di rispetto reciproco e di civiltà.

A questo coacervo di forze Walter Veltroni – che al Partito democratico, e più in generale a una soluzione “all’americana” delle vicende italiane, crede almeno fin dai tempi della svolta di Achille Occhetto – ha cercato di dare un’anima e qualcosa di simile a un’identità. Non ci è riuscito, lui dice soprattutto per limiti suoi e perché le oligarchie interne gli hanno fatto la forca, io penso soprattutto perché l’impresa era impossibile in partenza, e, dopo la batosta sarda, ha preso la palla al balzo, ha chiesto scusa e se ne è andato.



Molti, e io (sul Corriere) tra questi, hanno reso omaggio alla sua dignità personale e politica, che a me pare fuori discussione. Ma non è questo il punto. Il punto è che Veltroni ha giocato d’anticipo, nella previsione di una nuova e ben più grave sconfitta nelle elezioni europee e amministrative di primavera, e così facendo ha preso in contropiede i suoi oppositori, che avrebbero di gran lunga preferito lasciarlo lì a logorarsi e adesso non sanno bene che pesci prendere, perché sono tutti, gli ex diessini di fede dalemiana come gli ex popolari alla Fioroni come gli ex margheritini di osservanza rutelliana, animali politici adusi assai più alla manovra che alla battaglia in campo aperto, e del tutto sprovvisti di quel senso del tragico che non può e non deve, ci mancherebbe, animare la vita quotidiana, ma che, lo dice la parola stessa, è decisivo per affrontare le tragedie.

Esagero? Può darsi. Ma, se per calcolo si risolvessero, come pare certo tranne qualche eccezione si risolveranno, a dare via libera alla reggenza di Dario Franceschini, qualcosa che, con tutto il rispetto per Franceschini, assomiglia da vicino a un suicidio collettivo, vorrebbe dire, credo, che non esagero poi troppo.

Io non so se il Partito democratico riuscirà a superare unito questa passaggio drammatico. So però che per riconquistare qualcosa di simile all’unità occorrerebbe mettere in conto oggi, non domani, non dopodomani, la concreta, concretissima possibilità di dividersi: condivido quasi alla lettera quello che ha detto in materia, intervistato dal Corriere, Marco Follini, e non sto qui a riassumere le sue argomentazioni.

Il Pd sceglierà molto probabilmente un’altra strada, quella di un’unità peggio che fittizia. È una strada che non lo porterà da nessuna parte. O meglio: è una strada che lo porterà a dividersi, dopo un disastro elettorale di proporzioni oggi incalcolabili, in un contesto infinitamente peggiore di quello, già assai cupo, di oggi.

La cosa mi addolora perché sono, se non altro per motivi autobiografici, un uomo della sinistra italiana, e mi sconcerta l’idea che l’Italia diventi di qui a pochi mesi l’unico paese d’Europa non solo senza una sinistra, ma senza un centrosinistra, anzi, senza un’opposizione democratica degna di questo nome.

Ma temo che il nostro calice amaro, anzi, amarissimo, lo si debba bere tutto, sino in fondo. E che abbiamo solo cominciato a farlo.