Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, scrive nel suo ultimo libro “Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008” una frase che sembra lapidaria: «La verità è che il nocciolo del socialismo non rappresenta più un’opposizione al capitalismo». Giro la frase a Gianni Cervetti, che è stato un esponente di primo piano del Partito comunista italiano, un compagno e amico storico di Giorgio Amendola, quindi aperto alla collaborazione con tutte le forze della sinistra socialista e democratica. 



Negli ultimi anni del Pci, Cervetti fu il leader della cosiddetta area migliorista, l’ala dialogante con i socialisti di Bettino Craxi. Il tema di una breve chiacchierata con Gianni Cervetti è la deriva del Partito Democratico, l’impotenza, ammessa dallo stesso Walter Veltroni, di costruire un polo di opposizione di sinistra nel nuovo sistema politico italiano. 



Il riferimento a Krugman è venuto spontaneo, perché la bocciatura del Pd è come la caduta di ideali che si richiamano innanzitutto all’area che fu comunista, che poi ripiegò su posizioni socialiste o socialdemocratiche e che alla fine è diventata un’indistinta galassia riformista. 

Cervetti risponde: «Krugman è persona stimabilissima, ma ragiona di fronte alla realtà americana, ragiona da americano e arriva a queste conclusioni. Ma per l’Europa e per l’Italia io non condivido questa analisi. Difendo ancora questa grande tradizione socialista, di sinistra, che ha avuto un grande ruolo in Europa e in Italia». 



L’abbiamo presa da lontano per arrivare a questo “collasso” del Pd. «Quando si continua e mettere davanti alle questioni di politica sociale, ai problemi della giustizia italiana, al problema di come collocarsi nella realtà internazionale, solo i problemi statutari e le regole, l’opzione delle primarie e tutto il seguito confuso di congressi, pre-congressi, reggenze e via dicendo, si dà l’impressione di cercare solo equilibri di rapporto di piccolo potere. E alla fine non si costruisce nulla». 

Più che deluso, Cervetti sembra infastidito di fronte a questo arruffato Partito Democratico. Non può essere la conclusione storica di una lunga vicenda? «Mah, storico! In questo c’è tutto e anche nulla. Il problema è che per tutti, anche per i socialisti europei, c’è da affrontare un profondo rinnovamento. A cominciare dall’unità dell’Europa. Questo è un nodo che non è stato ancora sciolto. Oggi, nel 2009. Non c’è stato un rinnovamento e non c’è stato un impegno determinato. E poi c’è un problema di identità da salvaguardare. Intanto non si può astrarsi completamente dalla realtà. In politica una forza politica guarda al momento che si vive. Quindi il socialismo dovrebbe guardare al momento dato, a quello che si trova di fronte e affrontare le questioni sul tappeto». 

Quindi lei sostiene che non si sono affrontati i problemi che sono davanti agli occhi di tutti, quasi una fuga dalla realtà. E quindi gli elettori non sanno più come orientarsi? «Ma basta osservare la questione dei rapporti internazionali e soprattutto i problemi della giustizia italiana, dove non si tratta di parlare di un processo, che è pure un fatto importante, ma del funzionamento complessivo dello Stato di diritto. A me pare che oggi nel Pd c’è un appiattimento, spesso su posizioni giustizialiste, che non c’entra nulla con una forza di sinistra che voglia difendere lo Stato di diritto». 

Accennava anche a un problema delle identità? «Mi sembra evidente. Che cosa vuole dire mettere insieme, indistintamente, tutti i riformismi? Dietro a ogni politica, a ogni scelta riformista c’è un lungo percorso, una storia, un’identità, degli ideali. È necessario che i riformismi si uniscano, ma non in un partito, piuttosto in un governo o in una coalizione. Di tradizioni di sinistra in Italia ce ne sono state moltissime e ora sono tutte cancellate. Perché alla fine una persona, con la sua identità, dovrebbe scegliere un’ammucchiata indistinta di riformismi?».

(Gianluigi Da Rold)