Il disegno di legge relativo alle direttive anticipate di trattamento (il c.d. testamento biologico ndr.) – attualmente in discussione al Senato, ove esso è stato approvato dalla Commissione sanità, in sede referente – introdurrà, se approvato, importanti innovazioni nell’ordinamento giuridico italiano, sia predisponendo un quadro normativo certo, dopo anni di oggettiva incertezza e una serie di colpi di mano giurisprudenziali, nella materia del fine vita, sia prevedendo il nuovo istituto delle “dichiarazioni anticipate di trattamento” (DAT), che consentono a ciascuna persona di esprimere “il proprio orientamento in merito ai trattamenti sanitari di fine vita in previsione di una eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere” (art. 5 del disegno di legge).
Il testamento biologico in Italia
L’introduzione di questo meccanismo nel nostro ordinamento è da anni invocata da varie parti dell’opinione pubblica. Essa consente al paziente di esprimere le proprie determinazioni in relazione ad una eventuale situazione in cui potrà venirsi a trovare in futuro. Ciò consente che il trattamento medico che gli verrà riservato nella situazione in cui non fosse più capace di intendere e di volere corrisponda alla sua visione del mondo ed alla sua percezione sul modo in cui sia giusto attraversare la fase estrema della vita. Il disegno di legge circoscrive l’autodeterminazione del paziente sia quanto alle forme con cui egli può redigere le DAT (atto scritto, validità triennale con possibilità di rinnovo, revocabilità in ogni istante, ecc.), sia ai contenuti che esse possono assumere. In particolare viene escluso che tali direttive possano richiedere qualsiasi forma di eutanasia, attiva o passiva, e che con esse si possa chiedere di non essere assoggettati a idratazione ed alimentazione, in quanto tali trattamenti non sono cure, ma forme di sostegno vitale.
Rispetto ad alcune disposizioni del disegno di legge sono state avanzate varie obiezioni, sia di opportunità, che di legittimità costituzionale. Alcuni, in particolare, hanno parlato di una nuova “legge truffa”, che introdurrebbe nel nostro sistema giuridico un simulacro di testamento biologico, destinato a svuotarne la ratio dall’interno. Altri, più specificamente, hanno sostenuto che le limitazioni alla facoltà di disporre sarebbero in contrasto con il principio di autodeterminazione del paziente nella scelta delle cure, che avrebbe base costituzionale negli articoli 13 e 32 della Carta costituzionale italiana.
Le obiezioni di incostituzionalità
Alle prime obiezioni, che appaiono un po’ sopra le righe, si può replicare che il disegno di legge introduce nell’ordinamento italiano, in forma prudente, uno strumento nuovo che andrà verificato nella sua applicazione, circa la idoneità di esso (in particolare sotto il profilo procedurale) a rispondere alla domanda sociale di una più chiara partecipazione del paziente alle scelte che lo riguardano nelle fasi di fine vita. E’ certo opportuno che si svolga fin da ora un dialogo parlamentare franco ed articolato, e non è affatto impossibile immaginare miglioramenti del progetto in Senato ed alla Camera, ma la tendenza del fronte laicista ad alzare barricate preventive deve essere esecrata senza esitazione.
Per quanto attiene ai profili di legittimità costituzionale delle limitazioni al contenuto delle DAT, si impone un ragionamento più articolato. L’interpretazione prevalente del diritto alla salute di cui agli art. 13 e 32 della Costituzione italiana ritiene infatti che il paziente abbia diritto a rifiutare le cure e che queste possano essergli prestate solo sulla base del suo consenso, sorretto da adeguata informazione, con l’eccezione dei trattamenti di emergenza.
E’ quindi ormai pacifico il diritto del paziente a rifiutare (preventivamente) qualsivoglia cura, anche qualora la conseguenza di tale rifiuto sia la morte, indipendentemente dalla immediatezza di quest’ultima. E’ certo criticabile l’estremizzazione di alcuni profili (ad es. sul diritto a rifiutare le trasfusioni di sangue), ma il nucleo di questo principio appare acquisito con una certa stabilità nella cultura giuridica italiana.
Le questioni “di confine”
Restano però aperte alcune questioni “di confine”. In primo luogo, fermo il diritto di rifiutare nuove cure, non è chiaro è se tale diritto possa estendersi anche alla richiesta di interruzione di cure già in corso, quando conseguenza immediata di esse sia con ragionevole certezza, la morte del paziente. La distinzione che al riguardo si può fare dal punto di vista etico – fra la legittimità di una richiesta di interruzione di cure ritenute ormai insostenibili e la illegittimità di una analoga richiesta, con finalità apertamente eutanasiche – non è infatti agevolmente trasferibile sul piano giuridico, ma non appare del tutto priva di rilievo.
In secondo luogo, non tutto ciò che può essere disposto materialmente nell’esercizio di una libertà può essere oggetto di una disposizione per il futuro: tra le due facoltà soggettive non vi è un esatto parallelismo. Ciò vale in primo luogo per il problema dell’attualità della volontà del paziente, che giustamente il disegno di legge in esame al Senato sottopone a rigorose condizioni procedurali. Ma vale anche per i trattamenti che è possibile rifiutare.
Il i problemi aperti dal caso Englaro
A prima vista l’obiezione a questa tesi suona in questo modo: “se posso rifiutare di alimentarmi e di idratarmi ora, perché potrei non farlo per il futuro?” La risposta sembra stare nella natura dei trattamenti di alimentazione ed idratazione, i quali non consistono in cure, ma in forme di sostegno vitale, la cui interruzione comporterebbe una forma di eutanasia, in quanto il paziente che ne venisse privato non morirebbe per conseguenze dirette della patologia da cui è affetto, come accade per l’interruzione di una cura, ma morirebbe di fame e di sete, come è accaduto nel caso Englaro.
In questa prospettiva la limitazione ora accennata dovrebbe superare il vaglio di costituzionalità di cui all’art. 32, 2° comma. Anche a ritenere che l’idratazione e l’alimentazione siano “trattamenti sanitari” nel senso in cui ne parla tale disposizione costituzionale (la cui origine storica stava piuttosto nella finalità di proibire trattamenti diminutivi della dignità umana – come la sterilizzazione forzata – e non trattamenti volti a preservare la vita), resta il fatto che i trattamenti medesimi sarebbero imposti da una legge (il che è consentito dall’art. 32, 2° comma, della Costituzione). Quanto, poi, all’ulteriore vincolo posto da tale disposizione, che esclude in ogni caso i trattamenti che non rispettino la persona umana, anche se disposti per legge, pare che si venga qui a toccare la nozione di fondo di persona, che è alla base dell’ordinamento costituzionale.
Il pericolo dell’introduzione dell’eutanasia
Se si ritiene che la persona sia solo un potere di autodeterminazione che non presuppone nessuna entità oggettivamente definita che si autodetermina, allora il limite in esame dovrà essere inteso come abilitante a qualsiasi determinazione sul proprio futuro, compresa, eventualmente, l’eutanasia attiva. Se, invece, si reputa che il richiamo alla persona umana stia ad evocare un valore oggettivo della stessa, che precede l’autodeterminazione (e che anzi ne costituisce il fondamento ed il limite), allora il principio di autodeterminazione, pure riconosciuto nell’art. 32, può incontrare dei limiti. E non appare irragionevole un limite che impedisca di disporre per il futuro pratiche, anche omissive, aventi portata non solo direttamente, ma anche indirettamente eutanasica.