L’elezione di Dario Franceschini alla guida del Pd, dopo le dimissioni di Walter Veltroni, non risolve la situazione travagliata e caotica nella quale è impantanato il Partito democratico. E la questione del testamento biologico ha subito messo in evidenza le divisioni tra l’ala ds e i teodem. Un problema, quello delle due anime del Pd, destinato a esplodere? È certo che la convivenza tra la componente cattolica e quella progressista si preannuncia molto complicata, anche se Franceschini le riunisce entrambe. O forse proprio per questo. I cattolici del Pd, secondo Ernesto Galli della Loggia, editorialista del Corriere, saranno sottoposti ad un continuo, estenuante esame di laicità. Che potrebbe vederli definitivamente sconfitti.



Franceschini tenterà di rilanciare il partito riproponendo la sintesi tra cattolicesimo democratico e sinistra riformista. Con quali possibilità di successo?

Credo che questo “amalgama”, come ha detto d’Alema, sia destinato a non riuscire, a non dar buoni frutti. Sono culture politiche diverse, che hanno ispirazioni diverse e storie diverse. Quando la storia ha creato contrapposizioni così nette, come sono state quelle tra la cultura del Pci e la cultura della Dc, non credo che sia possibile fare come se nulla fosse accaduto. Ma non usiamo per favore l’espressione cattolico democratico. È scorretta. De Gasperi e Scelba erano forse cattolici non democratici? Non credo proprio.



Resta il fatto che cattolicesimo di sinistra e cultura comunista si sono incontrati e hanno dato vita a sintesi culturali e politiche. Lo stesso Franceschini è un ex allievo di Zaccagnini.

Poteva avere un senso la tendenza all’incontro tra la cultura cattolica di sinistra, dossettiana, e la cultura comunista perché, che lo so voglia o no, il partito comunista era espressione delle esigenze delle classi popolari. Ma ora la cultura del Pd non è più questa. Non c’è più quell’Italia, quella società. La cultura del Pd è di tipo democratico radicale, con forti tratti di tipo laicista, che non appartengono alla tradizione del vecchio Pci.



Questo cosa comporta per i compagni di viaggio? Le questioni etiche metteranno le due componenti ai ferri corti?

La cultura radicale che sottende il Pd rende tutto più problematico, perché obbliga la cultura cattolica a spingersi sempre più sul terreno della laicità ed è lì che viene dagli altri interpellata e giudicata. I cattolici, in altre parole, devono essere in grado di superare quello che potremmo chiamare l’esame di laicità. Ma è un esame a senso unico: se i cattolici devono superare la prova di laicità, gli altri quale prova devono superare? È una posizione intimamente squilibrata perché squilibrato è l’orientamento dell’elettorato del Pd, che non si riconosce se non in misura minima nella base cattolica.

Tanto vale trarne le conseguenze?

I cattolici rappresenteranno al massimo il 20 per cento dell’elettorato del Pd. Da qui l’obbligo di fare dei compromessi, che però non piacciono e non piaceranno al rimanente 80 per cento. A mio avviso è un circolo chiuso dal quale non si può uscire. Perché la componente maggioritaria dovrebbe rinunciare a certe sue idee, rassegnarsi e fare un passo indietro per rispettare quel 20 per cento? Lo farebbe solamente per una ragione di tipo politicistico-elettorale. Ma la realtà è che non si possono fondare i partiti su basi politicistico-elettorali. Lo si può fare per formare le liste di un’elezione, ma non un partito politico.

Un Pd, dunque, in crisi di identità. Ci sono altre “tradizioni disponibili”?

Non si può ragionare in questo modo. Le identità sono il prodotto della storia. Non si può dire: facciamo un congresso e diamoci un’identità. È una stima superficiale e ingenua nella possibilità che le persone possano decidere della storia, del passato, di una visione del mondo. Il passato ci condiziona tutti, condiziona anche Franceschini.

Ostellino, su questo quotidiano, ha invitato il Pd (e non solo) a guardare la tradizione realmente riformista, sociale e solidale, del cattolicesimo liberale italiano. Che ne pensa?

Penso che sia giusto guardare le altre culture riformiste. Ma quell’invito vuol dire chiedere al Pd di essere un partito pigliatutto. Sturzo era un nemico feroce della sinistra cattolica. Se domani Franceschini facesse un elogio di Sturzo, avrebbe forse molti applausi, ma perché non si conosce quello che Sturzo scrisse negli ultimi quindici anni. Quell’esortazione suona un po’ come l’invito a fare acquisti nei negozi, nelle agenzie culturali altrui… È vero che ormai i confini e le storie si stanno annullando, ma come può una persona che viene dalla cultura del Pci condividere il liberismo antistatalista di Sturzo?

Si potrebbe sempre dire che la storia del Pci si è conclusa nel 1989, con la svolta della Bolognina.

Sì, ma la cultura è rimasta, perché la storia si deposita nelle persone e nelle tradizioni, non si cancella. In Italia si dà un po’ troppo per scontato che tutti possano diventare quello che vogliono, a seconda dei gusti dell’elettorato e delle esigenze della politica. Ma la politica non è un market che può soddisfare i gusti del pubblico.

Che cosa può fare a suo avviso il Pd, nella situazione in cui si trova?

Guardi, io sono uno storico e mi occupo del passato, non del futuro. Ma so quello che farà Franceschini: un po’ di demagogia e un po’ di accordi, tenendoli discretamente dietro le quinte, con i maggiorenti del partito. E incrocerà le dita, sperando nella fortuna.

La tradizione culturale cattolica di sinistra alla quale ha accennato che cos’ha ancora da dire alla politica italiana?

Nulla. Per dire ancora qualcosa dovrebbe liberarsi dei due macigni “feticci” ai quali ancora si tiene avvinta, il Concilio Vaticano II e la Costituzione. Due cose che sono di cinquanta, sessant’anni fa e che rappresentano una specie di ipse dixit che costringe quella cultura all’immobilismo e ad allontanarsi sempre più dalla cultura sociale e, credo, anche religiosa del paese. L’idea del divieto morale di cambiare la Costituzione è poi puramente demagogica e strumentale.

Domenica, dopo la sua elezione a segretario, Franceschini ha giurato di rispettare la Costituzione.

Ma tutti i cittadini hanno l’obbligo di osservare la Costituzione. Io per esempio mi riconosco nella Costituzione, ma penso che possa e debba essere in alcune parti cambiata. Non si capirebbe perché chi l’ha scritta vi ha messo l’articolo 138, che dice come modificarla. La sinistra cattolica non può ammettere che venga messo all’ordine del giorno il cambiamento della Costituzione perché sa che in tal caso franerebbe un fortissimo suo elemento identitario. Lo stesso Dossetti nei suoi ultimi anni che cosa ha fatto? Ha parlato in difesa della Costituzione.

Lei ha citato anche il Concilio Vaticano II. Perché?

 

Quella tradizione culturale è legata al Concilio Vaticano II inteso come insieme di valori che vedevano nel terzo mondo, nelle organizzazioni internazionali, nella pace il destino futuro dell’umanità complessivamente intesa. Oggi nessuno di noi pensa che il futuro vada in questa direzione. Beninteso, il Vaticano II è un grande acquisto, ma per la definizione dell’identità della Chiesa, non per l’immagine della sfera sociale che deve avere un cristiano. Il Concilio è un punto fondamentale per la definizione della libertà di coscienza, del ruolo del laicato cattolico, per la modernizzazione liturgica, ma le costituzioni che riguardano l’immagine del mondo sono ormai superate. La sinistra cattolica crede ancora nel bene ideologico: rappresentato, per esempio, dalla pace, o dalle organizzazioni internazionali.

Quali sono invece le potenzialità della tradizione culturale cattolica e liberale?

La tradizione cattolica liberale ha sempre saputo benissimo tutto questo. Teniamo però presente che ci sono stati cattolici che erano liberali, ma non è esistita la linea politica di una tradizione cattolico-liberale unitaria. Manzoni aveva le idee politiche di Cavour, soltanto che a differenza di Cavour credeva in Dio e nella Chiesa. Sturzo è ancora diverso, è un cattolico popolare.

Sturzo ha messo in guardia contro l’invadenza dello Stato. La cultura del Pd è immune da questo rischio?

Oggi lo statalismo non è più un termine caratterizzante, distintivo. Non lo è più perché le politiche economiche le decide l’Europa e non i partiti al governo. L’Europa è liberista e tutti siamo liberisti entro i margini che di volta in volta sono indicati dalle crisi. I partiti di sinistra sono diventati partiti radicali di massa perché dal punto di vista delle politiche sociali ed economiche ormai il loro spazio di manovra è limitatissimo. La stessa differenza tra le politiche economiche di destra e di sinistra va progressivamente riducendosi.

Ci sono regioni italiane amministrate dal centro sinistra nelle quali, sempre per citare Ostellino, «società civile e società politica sono diventate, organicisticamente, un tutt’uno». Questa non è una forma di statalismo?

Il Pd amministra semplicemente i soldi pubblici. Il consenso che ha in Toscana, Umbria ed Emilia Romagna deriva dal fatto che mediamente si è dimostrato un buon amministratore; e che ha saputo usare la spesa pubblica per costruire consenso politico. Ma la politica ha sempre fatto questo, e il Pd non è certamente l’unico esempio.