L’intervista a Piero Ostellino suggerisce una pista di ricerca per rimediare alla “crisi dei fondamenti” del Pd. Avanti, dunque, su questa strada!

Perché l’impresa non è riuscita? La ragione di fondo è che gli ex-PCI e gli ex-DC non hanno ruminato fino in fondo la crisi delle culture politiche di riferimento, con le quali sono entrati nell’Assemblea costituente nel 1946.



La sinistra di ispirazione comunista e socialista aveva come paradigma fondativo quello di Marx: l’eguaglianza. Dei tre sacri principi della Rivoluzione francese: liberté, égalité, fraternité, il Manifesto del 1848 criticò aspramente le illusioni del primo e assunse il secondo come identificativo della sinistra. Rispetto alle libertà borghesi, considerate come puramente retoriche e formali per il proletariato, Marx rivendicò l’eguaglianza reale delle persone come il nucleo fondativo.



E poiché, a differenza della libertà, l’eguaglianza non è un dato naturale, originario – perché le persone sono ciascuna diversa e diseguale! – bensì una costruzione sociale, il marxismo affidò allo Stato, opportunamente conquistato dal proletariato o con la violenza delle armi (il bolscevismo) o con la maggioranza dei voti (la socialdemocrazia), il compito di schiacciare la borghesia e realizzare l’eguaglianza delle condizioni di partenza e di arrivo delle persone. Era questa la fase del “socialismo”. Al termine della quale, prevedeva Marx, sarebbe arrivato il “comunismo”: società senza classi e senza Stato, società dell’abbondanza e del massimo dispiegamento delle libertà individuali.



Attorno a questo paradigma sono stati costruite le tre Internazionali del movimento operaio – quattro, se vogliamo contare anche quella troskista – i partiti comunisti e i partiti socialisti, la rivoluzione d’Ottobre, il sistema degli Stati comunisti.

Questa storia finisce nel 1989. Da allora la sinistra italiana non ha fatto un passo in avanti. Il passo, come suggerisce Ostellino, consisterebbe nell’assumere fino in fondo il paradigma della libertà come fondativo. I laburisti inglesi lo hanno fatto, i socialdemocratici tedeschi ci hanno provato, i comunisti italiani no!

Lo statalismo ha continuato a essere l’identità della sinistra in tutte le sue elaborazioni programmatiche e nella concreta azione di governo: dal mercato del lavoro, al Welfare, alla scuola e Università, alla riforma mancata dello Stato amministrativo.

Su questo terreno si è annodata fatalmente l’alleanza con la sinistra democristiana, le cui radici affondano nel Codice di Camaldoli del 1943 e nell’imponente sistema delle Partecipazioni statali. Il cattolicesimo liberale di don Sturzo e il principio di sussidiarietà della Quadragesimo anno furono messi da parte sia dall’emarginazione politica di Sturzo e degli sturziani sia da un’interpretazione che rovesciava il principio di sussidiarietà nell’appello allo stato ad intervenire.

La Repubblica italiana che lo sturziano on. Tupini voleva fondata “sulla persona e sulla libertà” e Togliatti “sui lavoratori” finì per poggiare “sul lavoro” per mediazione di Dossetti. Sovietica? Non esattamente. Ma neppure cattolico-liberale!

Ora la cometa dello Stato nazionale è al declino, a cinque secoli dal suo sorgere, mentre si affermano da una parte realtà istituzionali globali, ma, soprattutto, “un sentire di libertà” di milioni di persone, che è il frutto migliore del secolo scorso, pur denso di movimenti, rivoluzioni, guerre e sangue.

A questo mutamento di civiltà la sinistra di origine comunista, socialista, cattolica non sa rispondere, se non ricorrendo alle culture politiche del primo ‘900. D’Alema e Bersani rispolverano gli “elementi di socialismo” già berlingueriani. È il segno della conservazione impotente.

La prospettiva che ne esce non è neppure quella della classica socialdemocrazia tedesca, bensì quella della Neue Linke di Oskar Lafontaine e Gysi. Berlusconi, viceversa, ha risposto a quel mutamento con il Partito delle Libertà.

Benché la coerenza tra la proclamata identità di libertà e l’azione concreta di governo sia spesso labile e discontinua, trattandosi di un mix pragmatico di liberalismo, populismo, statalismo, resta che il principio di libertà evoca orizzonti di responsabilità, di iniziativa, di futuro, che il Pd non è in grado di indicare.

Il suo principio di eguaglianza, ben lungi dall’alludere a aspirazioni di giustizia, rinvia piuttosto allo statalismo assistenziale, al centralismo amministrativo, al pansindacalismo invasivo, alla spesa pubblica. Di qui la radicalità della crisi.