La principale obiezione alla proposta del ministro Brunetta di equiparare l’età pensionabile delle donne a quella degli uomini, almeno per gli statali (come ha esortato a fare la Corte europea di Strasburgo), proviene proprio dal fronte femminile. A darle voce sono state, nelle settimane passate, alcune esponenti della politica, tanto dalla maggioranza quanto dell’opposizione, accomunate dall’intento di salvaguardare le prerogative femminili. L’argomento utilizzato ha a che fare con la cura domestica e con l’allevamento dei figli: in pratica, si sostiene, le donne avrebbero “diritto” ad andare in pensione prima per essere in qualche modo “risarcite” del doppio impegno profuso durante la loro vita lavorativa.



L’anticipo del pensionamento sarebbe quindi in qualche modo giustificato dal fatto di aver badato ai figli e alla casa, oltre che alla carriera. Eppure, la realtà è diversa: proprio perché impegnate nella realizzazione professionale, le donne che badano anche a figli e casa sono ormai una assoluta minoranza. Da tempo, il cosiddetto lavoro di cura viene delegato in massima parte ad altre figure e ad altre istituzioni. Avviene almeno dal secolo scorso: da quando – ben prima delle lotte per l’emancipazione e dei loro dubbi risultati – le donne sono state spinte fuori casa non solo, e non tanto, dal legittimo desiderio di autonomia, quanto soprattutto dalle mutate esigenze economiche dei nuclei familiari. In un mondo che aveva scoperto i consumi, il ruolo della donna non poteva restare limitato all’occupazione domestica, ma doveva essere attivamente coinvolto nella ricerca di sostentamento al di fuori dell’ambito casalingo. Le donne, impegnate fuori casa per contribuire al pari degli uomini al bilancio familiare, non hanno più potuto permettersi di fare le casalinghe e le mamme: fino a quando, negli anni della contestazione giovanile e delle manifestazioni di un certo femminismo, un simile bisogno, nato da una necessità sociale, si è trasformato in un assunto non falsificabile. Il lavoro extradomestico è diventato allora un’esigenza femminile, uno strumento di emancipazione; l’impiego in ambito non casalingo, sessualmente indifferenziato, si è tradotto nel veicolo di una irrinunciabile realizzazione personale – anche a discapito di quella familiare –, identificata tout court con i risultati di una produttività socialmente riconosciuta.



Gli esiti di una simile evoluzione sono sotto i nostri occhi: mentre le donne rincorrono un’affermazione nel campo del lavoro che è ancora molto lungi (basta consultare i dati sulle percentuali di donne nella classe dirigente, tanto professionale quanto politica), il lavoro di cura viene affidato a terzi: asili nido, ospedali, ma soprattutto ad altre donne, meno tutelate, meno fortunate, per lo più immigrate. Le colf, le badanti, le baby sitter (del cui pensionamento nessuno sembra occuparsi, nonostante si facciano in due – loro sì – per badare sia alla propria famiglia che a quella altrui) sopperiscono all’impossibilità delle donne di dividersi equamente tra famiglia e lavoro: con effetti preoccupanti soprattutto per quanto riguarda l’educazione e l’allevamento dei figli, privati dell’indispensabile presenza materna già dalla più tenera età. Dunque, cosa dovrebbe risarcire l’anticipo dell’età pensionabile femminile? Non certo un danno subito nel dedicarsi alla famiglia, visto che sono in pochissime ad accantonare realmente la loro ambizione per farlo.



Del resto, se si continua a considerare una maternità piena e consapevole come un “danno” da risarcire, non si vede come potrebbe essere altrimenti. In una prospettiva appena differente, apparirebbe chiaro che non c’è proprio nulla da risarcire. Quello che gli addetti alle politiche di conciliazione del nostro paese non hanno ancora compreso è che dietro la flessione della natalità delle italiane c’è un deficit di maternità: che per fare una madre non basta incoraggiare la fertilità, magari costruendo asili nido a tappeto, ma bisogna anzitutto tornare a considerare la dedizione femminile e ai figli come un valore; bisogna consentire alle donne che lavorano di fermarsi il tempo necessario per poter costruire serenamente e gioiosamente la loro famiglia – magari recuperando lo stesso tempo in seguito.

Il vizio delle obiezioni mosse a Brunetta sta tutto qui. Se davvero si volesse argomentare che le donne hanno bisogno di più tempo per poter conciliare famiglia e lavoro, non bisognerebbe chiedere di andare in pensione prima, ma di andarci dopo. Insistendo a tenere così bassa l’età del pensionamento, non si ottiene altro che di espellere dal mercato del lavoro una pletora di individui dalle energie ancora attive e preziose; mentre lo stesso mercato del lavoro insiste per riassorbire in tutta fretta la forza lavoro dei neogenitori, sottraendoli al compito di occuparsi dei figli proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno. Il risultato è sotto i nostri occhi: un paese a crescita zero, in cui i nonni si occupano dei nipoti, non avendo potuto curare i figli, mentre le madri rientrano di corsa al lavoro dopo il parto, come nemmeno Rachida Dati. Insomma, un paese con un welfare che guarda solo alla terza età, perché invecchia, e invecchia perché guarda solo alla terza età.

Basterebbe gettare un occhio oltre le nostre frontiere per scovare un correttivo, che va nella stessa direzione della proposta del ministro: una sospensione temporanea dell’attività lavorativa durante i primi tre anni di vita dei figli, da recuperare poi con uno slittamento dell’età pensionabile pari al tempo di congedo fruito. Un modo semplice per consentire alle donne di fare le madri a tempo debito: invece di abbandonare i figli nelle braccia di altri, parenti o estranei, fino al momento in cui, ancora abili e vigorose, saranno costrette a deporre i ferri del mestiere per fare le nonne, e sopperire così alla stessa mancanza di cui sono state insieme vittime e artefici.

Questa sorta di “anno familiare”, simile a un anno sabbatico, avrebbe l’effetto di una parentesi nella carriera, equiparabile a quella oggi già prevista dalla normativa per dedicarsi alla formazione. Qualcosa di simile era stato discusso dal governo Prodi nel 2007, sul modello di analoghe iniziative già intraprese nel nord Europa; ma il fatto che se ne discutesse anche allora nel contesto di una generale revisione dell’età pensionabile delle donne, tesa all’innalzamento su base volontaria, pose all’epoca un ostacolo insormontabile alla realizzazione del progetto, travolto insieme al resto del piano dalle consuete e ormai anacronistiche obiezioni sindacali. Il progetto resta così a tutt’oggi nel limbo dei buoni propositi: riuscire a realizzarlo, qualsiasi sia il colore del governo che se ne fa carico, sarebbe indice di una meritoria ripresa dell’opera di modernizzazione del paese; oltre che di una volontà non meramente propagandistica di sostenere la famiglia.

La famiglia: tutto dipende dal fatto che la si riconosca come un valore. Tutto dipende dal fatto di non giudicare la dedizione ad essa come una penalizzazione – rispetto, ad esempio, a una brillante carriera; tutto dipende dal rovesciamento dell’opinione che vede nella gravidanza, nel parto, nella maternità gli inevitabili danni collaterali della femminilità. Tutto dipende dalla convergenza sull’idea che occuparsi esclusivamente dei figli, anche solo per un breve periodo, sia quanto di meglio si possa fare nella vita. John Bowlby, psicanalista britannico padre della teoria dell’attaccamento, ha scritto: «Le forze dell’uomo e della donna impegnate nella produzione dei beni materiali contano come attivo in tutti i nostri indici economici. Le forze dell’uomo e della donna dedicate alla produzione, nella propria casa, di bimbi sani, felici e fiduciosi in se stessi non contano. Abbiamo creato un mondo a rovescio».