Il rifiuto del Presidente della Repubblica Napolitano di firmare – venerdì 6 febbraio – un decreto legge predisposto dal IV governo Berlusconi, nel quale si disponeva l’obbligatorietà di garantire i trattamenti di idratazione ed alimentazione ai malati in stato vegetativo permanente, nell’attesa dell’approvazione di una legge in materia, ha riproposto la non nuova questione del rapporto fra Governo e Capo dello Stato in materia di decreti-legge.



Per comprendere il problema, occorre muovere dalla caratteristica di fondo della forma di governo italiana: quella di un regime parlamentare razionalizzato (sia pure in misura debole). In tale sistema la determinazione dell’indirizzo politico – e quindi delle scelte legislative – spetta al cosiddetto continuum fra corpo elettorale, maggioranza parlamentare e governo, con un ruolo-chiave del Presidente del Consiglio all’interno di quest’ultimo. Ciò non vuol dire che non esistano contropoteri, sia interni alla forma di governo (il Presidente della Repubblica anzitutto, ma anche le minoranze parlamentari), sia esterni ad essa (la Corte costituzionale, la magistratura, e più in generale la società civile). Nel nostro sistema parlamentare questo assetto di fondo è stato a lungo segnato dalla debolezza degli esecutivi, causata dalla frammentazione delle coalizioni che li sostenevano. Una debolezza, peraltro, che appare in buona misura consegnata al passato, almeno per quanto riguarda l’attuale governo.



Fra gli strumenti per attuare il proprio indirizzo politico di cui un governo dispone, la nostra Costituzione prevede i decreti-legge. E’ noto che i costituenti immaginavano un uso raro ed estremo di tale istituto e lo hanno per questo circondato di varie cautele, previste nell’art. 77, fra le quali la decadenza ab origine in caso di mancata conversione in legge entro sessanta giorni dall’emanazione. La Costituzione è tuttavia chiara nel precisare che le scelte in materia di decreti legge spettano al Governo e al governo soltanto: essi sono adottati “sotto la sua responsabilità”. Al Capo dello Stato spetta solo il potere di emanarli, dopo che essi sono stati deliberati dal Consiglio dei Ministri. Ma in che cosa consiste tale potere di emanazione? Si traduce esso in un potere di controllo che può mettere capo ad un rifiuto di emanare un decreto legge deliberato dal Consiglio dei Ministri?



Giustamente, nei giorni scorsi, si è sottolineato da più parti che il Presidente della Repubblica non è un “passacarte”. Il momento dell’emanazione introduce infatti una preziosa risorsa nel procedimento di formazione del decreto-legge (nonché del decreto legislativo delegato e del regolamento governativo). Esso offre al Presidente della Repubblica l’opportunità di formulare al Governo una serie di rilievi circa il contenuto del decreto e riguardo alla sussistenza dei presupposti costituzionali di necessità ed urgenza. Tali rilievi vanno formulati anzitutto in via riservata, e possono – a nostro avviso – essere proposti anche preventivamente alla delibera del Consiglio dei Ministri, nel contesto di un dialogo fra governo e Capo dello Stato che è necessario in un regime parlamentare. C’è di più: il Presidente della Repubblica può spingersi a chiedere al governo di riconsiderare un decreto da esso già deliberato e di sottoporglielo di nuovo e può rendere pubblica la propria posizione, chiamando l’opinione pubblica a sostegno della sua tesi. Ed in effetti vi è una serie di precedenti in questo senso, in alcuni dei quali il governo in carica pro tempore ha accolto i rilievi presidenziali o ritirato il decreto (si pensi al decreto Conso su Tangentopoli, che il governo Amato non ripresentò al Presidente Scalfaro dopo un invito di questi a riconsiderarlo).

Se tutto ciò è vero – e conferma che il Presidente non è affatto un passacarte – appare invece da escludere che egli possa rifiutare in via assoluta di firmare un decreto legge deliberato dal Consiglio dei Ministri (eventualmente dopo che tale organo abbia preso atto dei rilievi presidenziali): e mi pare manchino nella nostra esperienza costituzionale precedenti di questo tipo: i precedenti citati da Napolitano per giustificare il suo rifiuto di firmare rientrano piuttosto fra gli inviti a riconsiderare il decreto, che vennero accolti dai governi in carica.

L’eventualità, invece, di un rifiuto assoluto di emanazione dovrebbe essere ristretta ad ipotesi-limite, consistenti in un vero e proprio attentato alla Costituzione, mirando a mutarne la forma di governo, o in una lesione irreparabile dei diritti fondamentali. Per altri casi di sospetta incostituzionalità del decreto legge (a prescindere dalla legittimità di un tale dubbio, che nel caso dello scontro fra Berlusconi e Napolitano, a nostro avviso, non sussiste) l’ordinamento prevede infatti appositi rimedi, che vanno dal controllo parlamentare in sede di conversione del decreto in legge al giudizio di costituzionalità, e prima ancora, alla interpretazione (non necessariamente “creativa”) del decreto stesso da parte dei giudici in sede di applicazione concreta di esso.

E’ bene, dunque, riflettere pacatamente sul caso verificatosi venerdì 6 febbraio: in esso vi è un vulnus alla Costituzione che consiste in un ingiustificato ed abusivo esercizio delle prerogative presidenziali in sede di emanazione di un decreto-legge. Un vulnus di cui qualcuno potrebbe un giorno pentirsi, magari a cariche istituzionali invertite.

In questa occasione, il Presidente Napolitano ha fatto un uso quantomeno scorretto dei poteri che la Carta costituzionale gli attribuisce: un uso che contrasta sia con l’interpretazione letterale della Costituzione, sia con la logica (il regime parlamentare) che la ispira e la sorregge. Ciò vale indipendentemente dalle motivazioni addotte dal capo dello Stato circa una presunta illegittimità costituzionale del decreto legge: quest’ultima, infatti, non sussiste, ma, anche ove esistesse, la Carta costituzionale non attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di decidere in maniera vincolante su di essa, con le sole eccezioni sopra ricordate.

La scelta di Napolitano va restituita alla sua essenza specifica: quella di un atto politico, ideologicamente partigiano, e non a funzioni di garanzia della Costituzione. La quale non è certo “sovietica”, come si è inopportunamente sbilanciato a dire ieri il Presidente del Consiglio, anche se qualche ombra sovietica aleggia su taluni suoi interpreti o sedicenti garanti.

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