Si può anche non essere d’accordo con Piero Ostellino sull’efficacia del liberalismo in una società come quella italiana. Ma non si può assolutamente non essere d’accordo sull’analisi della società italiana che Ostellino fa nel suo libro appena uscito “Lo stato canaglia”, edito da Rizzoli.

A nostro parere, l’ex direttore e attualmente grande editorialista del Corriere della Sera, dà una autentica sferzata a un Paese che dice, in modo troppo ipocrita, di essere diventato “liberale”. Questo avviene nel campo della sinistra post-comunista fino a quello della nuova destra. Ormai si dichiarano tutti liberali. Ma di liberalismo ne conoscono ben poco e soprattutto operano, consapevolmente o inconsapevolmente, perché la società liberale o “quella aperta”, come diceva Karl Popper, in Italia non si costruisca mai.



Dalle prime righe del suo libro, Ostellino fotografa una realtà impietosa: «Un Paese paralizzato da un numero spropositato di leggi e regolamenti; soffocato da una cultura burocratica invasiva e ottusa; gestito da una pubblica amministrazione pletorica, costosa e inefficiente e, non di rado, corrotta; vessato da un sistema fiscale punitivo per chi paga le tesse e distratto nei confronti di chi le paga; prigioniero di corporazioni e interessi clientelari; nella mani, da Roma in giù, dalla criminalità organizzata. Un Paese in inarrestabile declino culturale, politico, economico, che non è ancora precipitato agli ultimi gradini tra i Paesi industrializzati dell’Occidente solo grazie allo spirito di iniziativa e alla proiezione internazionale della media e piccola imprenditoria. Questa è l’Italia oggi».



Gli esempi che l’ex direttore del Corriere porta, a sostegno della sua analisi, sono tutti calzanti e pertinenti, a cominciare dall’esame della nostra Costituzione. Il nostro fondamento giuridico non si fonda sulla libertà dell’individuo, bensì sul lavoro (articolo 1 della Costituzione). Si riconoscono i diritti dell’uomo, ma gli si chiede «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (articolo 2). Il diritto al lavoro si accompagna al «dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (articolo 4) ed è vincolato a un «esame di stato per l’abilitazione all’esercizio professionale» (articolo 33).



L’iniziativa privata è libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» (articolo 41), così come «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale».

Ostellino in questa disanima della Costituzione cita un grande cattolico liberale come Carlo Arturo Jemolo che diceva di preferire lo Statuto albertino a questa Costituzione. Scriveva: «Questa verbosità della Costituzione, questo frequente ricorso a formule vaghe riverberano su tutta la Carta una nota di indeterminatezza, di pressapochismo che non giova». Jemolo aggiungeva che non «hanno nulla di giuridico».

Appare ancora impietoso il rapporto tra il nostro testo costituzionale con quello di altri Paesi, come la Germania, dove all’articolo primo si specifica: «La dignità dell’uomo è intangibile. È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla. Il Popolo tedesco riconosce gli inviolabili e inalienabili diritti dell’uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo».

Il vero problema, che Ostellino coglie è quello di come è stata approvata la nostra Costituzione: «È figlia di un compromesso fra le due Resistenze, quella totalitaria (comunista) e quella democratica (liberale, cattolica, socialista, repubblicana) che si batterono contro il nazifascismo. La Resistenza totalitaria che durante la guerra di liberazione ha ammazzato, oltre ai fascisti, anche i partigiani di quella democratica, e dopo la fine della guerra cittadini innocenti in nome della lotta di classe e nella prospettiva dell’instaurazione nel nostro paese di un regime di tipo sovietico. La Resistenza democratica che si proponeva di abbattere il fascismo per portare l’Italia nell’alveo delle democrazie liberali dell’Occidente capitalista».

È qui, in questo passaggio storico, che Ostellino coglie perfettamente, a nostro modo di vedere, il nodo italiano. Tra una società imbavagliata non solo dalla dittatura fascista, ma dal modello corporativo economico, si è lentamente scivolati in una sorta di autoritarismo opposto, nell’impossibilità dei partiti democratici (forse anche nella loro incapacità o nella scarsa forza di convinzione) di indicare ai cittadini la strada della democrazia liberale.

Questo è avvenuto a tutti i livelli della società italiana, nella grande industria sovvenzionata dallo Stato, nella scuola, nella magistratura, nell’editoria, se è possibile dirlo nel “comune sentire” che quasi sconfessa l’individuo come grande realtà da favorire e tutelare. E persino tutti i tentativi fatti, anche da chi non partiva da concezioni liberali, per iniettare dosi di liberalismo nella società italiana, sono stati stroncati implacabilmente, con la paura che un cambiamento potesse avvenire.

Con questo libro, l’ex direttore del Corriere della Sera lancia una grande discussione che deve essere valutata in tutta la sua portata, proprio in un periodo come questo, che, per la crisi economica e finanziaria in cui viviamo, diventerà ancora di più motivo di attenzione per tutti in un immediato futuro.

Il problema che Ostellino pone è se questo Stato che difendiamo non sia altro che una versione moderna e leggera del Leviatano, la cui ideologia è appunto la prevalenza della collettività sull’individuo (una sorta di parafrasi della volontà generale roussoiana). Sarebbe un bene, questa volta veramente comunitario, che ad esempio gli strenui difensori della nostra Costituzione e del nostro ordinamento, rispondessero a questa “provocazione” di Ostellino. Tanto più che è posta non per difendere una parte politica, ma una rigorosa posizione culturale.