Nel cinquantesimo anniversario della repressione cinese e della fuga in India del Dalai Lama, il presidente cinese Hu Jintao ha esortato a erigere una “grande muraglia contro il separatismo” del Tibet. Il governo di Pechino ha blindato la regione arrestando un centinaio di persone, per cautelarsi e scongiurare una rivolta come quella di Lhasa dello scorso marzo. «In realtà è da più di un decennio che il Dalai Lama non chiede più l’indipendenza ma un’autonomia culturale e religiosa, in modo da salvaguardare il popolo tibetano». Lo spiega padre Bernardo Cervellera, direttore di Asia news, che conferma la volontà di Pechino di reprimere ogni più piccola forma di protesta, perché «il dialogo con qualunque gruppo, qualunque minoranza o semplicemente comunità religiosa sarà trattato sempre come un attentato al potere assoluto del partito».



Ieri il Dalai Lama è tornato a chiedere «un’autonomia legittima e significativa per il Tibet». Vuole l’autonomia o l’indipendenza? Perché pare che sia quest’ultima a preoccupare Pechino.

In realtà è da più di un decennio che il Dalai Lama non chiede più l’indipendenza ma un’autonomia culturale e religiosa, in modo da salvaguardare il popolo tibetano e farlo continuare a vivere. È Pechino che lo accusa di chiedere l’indipendenza, ma è una manipolazione dell’informazione.



Il governo cinese quindi addita nel Dalai Lama un leader politico ma non teme il leader politico, bensì il capo religioso…

Pechino teme entrambe le cose e il suo primo desiderio è di sopprimerlo. Come leader politico innanzitutto, accusandolo di dividere la nazione e di volere l’indipendenza. Ma anche come leader religioso, perché il governo cinese ha stabilito di fatto il controllo sui monasteri, sulle vocazioni, sulle fotografie del Dalai Lama, sui canti e addirittura sulle reincarnazioni, dato che ogni reincarnazione di monaco tibetano, per essere vera, deve avere l’approvazione del Partito. Il governo di Pechino cerca di entrare nel nucleo delle credenze tibetane per cercare di manipolarle a suo favore.



Il Dalai Lama non vorrebbe uno stato teocratico, in cui potere temporale e spirituale sono tutt’uno?

In Cina si possono avere tante idee perché c’è tanta disinformazione. Resta il fatto che il Dalai Lama  ha da tempo detto che volentieri rifiuterebbe qualunque carica politica e si ritirerebbe in un monastero, per essere soltanto il leader religioso della sua comunità.

Un negoziato è possibile o il Tibet è in un vicolo cieco?

Finché la supremazia del partito comunista sarà l’unico criterio politico-guida del governo cinese, è chiaro che il dialogo con qualunque gruppo, qualunque minoranza o semplicemente comunità religiosa sarà trattato sempre come un attentato al suo potere assoluto. D’altra parte è chiaro che il potere assoluto, man mano che queste minoranze crescono in coscienza e in volontà di esprimersi, avrà come esito la violenza. E l’esempio è proprio il Tibet. Da cinquant’anni in Tibet ci sono una dittatura militare, una legge marziale, prigioni ed esecuzioni eppure la gente continua a lamentarsi e a ribellarsi. Questo vuol dire che la strada della repressione non porta da nessuna parte.

Secondo lei con il susseguirsi delle generazioni esiste la possibilità di una secolarizzazione dei tibetani, e quindi l’apertura al riconoscimento di una autorità politica accanto a quella religiosa?

La gioventù tibetana è di fatto sottoposta ad una secolarizzazione di tipo consumistico come tutte le generazioni di giovani del mondo. Questo fenomeno può portare ad un disinteresse crescente verso la religione. Nel caso del Tibet, però, è proprio tra i giovani tibetani che si trova la voglia di combattere per l’identità nazionale tibetana. C’è sì, in altre parole, una secolarizzazione come apertura al consumismo ma c’è al tempo stesso un consolidamento del sentimento nazionale. La prova sta nel fatto che tutte le manifestazioni e tutti gli scontri con la polizia sono avvenuti ad opera dei giovani.

Cosa dobbiamo attenderci dai giorni a venire?

Penso che il Tibet sia così isolato e controllato che anche se succedesse qualcosa non verremmo a saperlo se non dopo alcuni giorni. Il controllo da parte della Cina è totale ed è per questo che anche il Dalai Lama ha chiesto di non fare gesti inconsulti e provocare violenza. La mia preoccupazione invece è rivolta all’opinione pubblica mondiale: le repressioni di Lhasa dell’anno scorso hanno causato centinaia di morti e quindi l’indignazione generale, ma dopo questa fiammata emozionale non ci sono stati veri e propri passi per far dialogare la Cina e il Dalai Lama. La Cina dice di aver cominciato un dialogo. Forse a parole, ma non nei fatti.

Internet e la comunicazione globale possono cambiare qualcosa nell’opinione pubblica cinese?

Internet da questo punto di vista è importantissimo e insostituibile, sebbene la Cina cerchi di controllare e oscurare le informazioni. Ma ora, anche se in Tibet non c’è alcun tipo di collegamento con l’esterno, i cinesi riescono a sfuggire al firewall del governo.