A quanto si apprende dalla cronaca politica di ieri, nel corso di un incontro con alcune associazioni di volontariato il segretario del Pd, Dario Franceschini, ha aderito all’invito della platea di aumentare gli aiuti destinati a chi opera a favore dei poveri proponendo di introdurre, in via temporanea, una tassa di scopo da far pagare ai contribuenti con un reddito imponibile superiore ai 120 mila euro. La proposta ha trovato il consenso anche della Lega in nome della solidarietà sociale.



Non si conoscono i dettagli della proposta perché la cronaca si è concentrata sull’effetto annuncio, ma alcune considerazioni di contesto sembrano pertinenti. Quale è il problema a cui si vuole rispondere? Dare più risorse alle organizzazioni non profit impegnate sul fronte anti povertà o effettuare un intervento a sostegno del reddito di più poveri? Se quest’ultimo è l’obiettivo principale, allora è necessaria una robusta manovra redistributiva, con trasferimenti pubblici aggiuntivi rispetto a quelli in vigore, social card compresa.



La popolazione al di sotto della soglia di povertà relativa (con spesa di 970 euro al mese per una famiglia di due persone) sfiora i 7 milioni e mezzo e quella “sicuramente povera” (con meno di 770 euro di spesa mensile) si attesta attorno ai 3 milioni di persone (circa un milione di famiglie); secondo i dati più recenti dell’Istat le famiglie sicuramente povere avrebbero bisogno di almeno 200 euro al mese in più per avvicinarsi alla soglia di povertà relativa. Ci vorrebbe, in altri termini, l’erogazione di un reddito minimo di sostegno (Rms) per chi è già povero, da finanziare a carico della tassazione generale, gravando su chi supera i 70 mila euro di reddito imponibile (se si vogliono raggiungere delle cifre significative) e non accontentarsi di “far piangere i ricchi”. Messa in questi termini, siamo di fronte ad una questione ben diversa dal (doveroso) potenziamento degli ammortizzatori sociali per chi sta perdendo il lavoro e il reddito.



Il contrasto della povertà attuale, specie se estrema, riguarda per lo più soggetti anziani e famiglie con bambini e ragazzi in minore età e richiede misure riparative di lunga durata. Il contrasto del rischio di impoverimento richiede misure preventive. Gli ammortizzatori sociali, per i quali sono stati stanziati 8 miliardi di euro, servono a prevenire l’impoverimento di chi è incluso nel mercato del lavoro (più o meno stabilmente), ma non toccano, purtroppo, chi è escluso da tale mercato. In entrambi i casi c’è da risolvere una distorsione resa evidente anche dall’andamento della social card: non si possono usare soglie di reddito o di consumo identiche su tutto il territorio nazionale, perché altrimenti si penalizzano i poveri (relativi) che vivono nelle regioni più ricche.

L’introduzione di una tassa di scopo ha ben altro significato se è finalizzata ad aiutare chi aiuta i più poveri, cioè le organizzazioni del terzo settore, che hanno il merito di moltiplicare il rendimento di ogni euro speso perché non producono solo assistenza, ma anche promozione sociale. In questo caso è meglio adottare politiche pubbliche che favoriscono le donazioni e la sussidiarietà orizzontale piuttosto che concentrare altre risorse nelle mani della pubblica amministrazione e scontare i costi e le inefficienze dei trasferimenti dal centro alla periferia. Al netto di tali costi, quanto effettivamente arriva nelle tasche delle organizzazioni non profit e dopo quanto tempo? Non si dovrebbe in ogni caso conferire allo stato centrale risorse che – a Costituzione vigente – andrebbero date alle Regioni che hanno competenza esclusiva in tema di politiche sociali. Sarebbe bene non perdere un’occasione importante per inaugurare, proprio in tema di politiche sociali, l’annunciato federalismo fiscale.

Resta un’ultima considerazione. Che senso ha imporre l’altruismo (se di questo si tratta) mediante un’obbligazione fiscale? L’altruismo si incentiva, non si impone. Se si vogliono aiutare le associazioni non profit la strada da percorrere è quella tracciata dal 5 per mille; in secondo luogo occorre operare a livello locale sulle convenzioni con il terzo settore per erogare, in partnership, servizi di pubblica utilità, onorando con più rapidità gli impegni economici assunti senza costringere il terzo settore ad indebitarsi, cioè a diventare più povero.