Il dibattito sull’età pensionabile femminile continua: rivelando insospettate alleanze tra donne e uomini – tanto sul fronte dei favorevoli quanto su quello dei contrari -, a discapito della solidarietà tra giovani e meno giovani.

Il sospetto è che in questo caso il vero conflitto da sanare non sia quello tra sessi, ma tra generazioni; anche se gli argomento maschili (o maschilisti) non mancano, il loro intento appare perfettamente convergente rispetto a quelli femminili (o femministi).



Su queste pagine Renato Farina ha di recente dato voce alla preoccupazione che le cinquanta-sessantenni, se occupate fino ai 65 anni, possano venire meno allo svolgimento di quel lavoro di cura che, cessata l’attività lavorativa, le attende. Occuparsi dei nipotini; curare i più anziani della famiglia, dedicarsi alla casa: ecco il contributo che ci si aspetta dalle ancora vitali donne pensionate (ma, ça va sans dire, non dai pensionati uomini).



È spesso vero che le pensionate fanno le veci di asili nido e badanti che non sempre ci si può o ci si vuole permettere; ma se si considera che le figure di questo tipo nel nostro paese sono tra il milione e mezzo e i due milioni, si realizza che le famiglie che si affidano in tutto o in parte al loro aiuto sono davvero numerose, e sempre in crescita: specialmente se si raffronta questa cifra con quella delle donne lavoratrici.

D’altro canto, mentre ci si preoccupa dell’utilità sociale delle nonne, nessuno sembra tenere in conto quella delle madri. Strano: si preferisce agevolare le prime, perché possano curare i bambini delle seconde; invece di sostenere direttamente le seconde perché possano curare personalmente i propri bambini. Forse che il ruolo delle nonne è insostituibile, e quello delle mamme invece no? Se a sostenere l’importanza sociale delle donne dopo i 55 anni è soprattutto il portato della tradizione, le ragioni che indicano come indispensabile la figura materna nei primi anni di vita dei bimbi sono, inoltre, biologiche, psicologiche e pedagogiche.



A essere invece del tutto paragonabile tra mamme e nonne è la capacità lavorativa (con un leggero vantaggio per quella delle meno giovani, che possono contare sull’esperienza oltre che, al giorno d’oggi, su un’energia non inferiore a quella delle figlie); eppure, quando si tratta di rinunciare a una delle due, sembra scontato scegliere le nonne.

E se invece nonne e mamme si accordassero tra di loro? Magari nel nome della flessibilità, che dovrebbe essere il principio fondante del sistema pensionistico a base contributiva. Quello che serve, in altre parole, è un nuovo patto tra generazioni, che superi tanto la contrapposizione tra i sessi quanto quella tra le diverse età.

Facilitando il ricorso a strumenti di gestione flessibile del tempo, si potrebbe agevolare l’uscita graduale dei prossimi pensionati – siano essi uomini o donne – dal mondo del lavoro, e insieme consentire di occuparsi della famiglia. Strumenti come il part-time, il job sharing, la banca delle ore, prevedendo la riduzione o la riorganizzazione del numero di ore lavorate permetterebbero di dedicare più tempo alla famiglia – in base a quello che la famiglia stessa stabilisce, maturando la scelta al proprio interno, senza affidarla automaticamente alla componente femminile.

Gli stessi strumenti, oggi ancora utilizzati quasi esclusivamente nella fase di entrata del mondo del lavoro, dovrebbero essere messi a disposizione delle neomamme e dei neopapà che vogliano dedicarsi più direttamente ai propri figli nella delicata fase della prima infanzia, invece di delegarne l’allevamento a terzi – nonni, baby sitter o asili che siano. Trasformare il ricorso a strumenti simili in un diritto, invece che una semplice facoltà com’è attualmente, non solo faciliterebbe la transizione verso il meritato riposo, ma alleggerirebbe il carico del lavoro di cura, e ripristinerebbe l’equilibrio dei ruoli familiari, senza sbilanciarlo verso le donne meno giovani.

Infine, a chi acconsente a posticipare da uno a tre anni il limite dell’età pensionabile, in presenza di figli di età inferiore a tre anni, lo Stato potrebbe riconoscere il diritto a sospendere l’attività lavorativa per un tempo equivalente. Un simile provvedimento sarebbe benefico per le casse statali, oltre che per il benessere familiare: durante il periodo di astensione, il sostentamento potrebbe infatti essere garantito, invece che da sussidi pubblici (che non farebbero che riproporre il problema della sostenibilità già sperimentato per le pensioni), da un anticipo del TFR, svincolato da qualsiasi delle condizioni oggi previste. Si potrebbe così contare a tempo debito sul contributo dei genitori – che non può e non deve limitarsi a quello di forza-lavoro al servizio della produttività nazionale -, invece di affidarsi a loro solo quando saranno ormai nonni, precocemente strappati al mondo del lavoro.

Se davvero quello che ci sta a cuore è salvaguardare la tenuta sociale, insomma, ci sono modi migliori per farlo che ostinarsi ad anticipare il pensionamento femminile. Se davvero devono scegliere le donne, come ha affermato Umberto Bossi, che non scelgano gli uomini, designandole come le responsabili uniche del lavoro di cura alla fine della loro vita lavorativa. E se davvero a scegliere devono essere le donne, non ha senso scegliere al loro posto, imponendo loro di fare le nonne dopo aver impedito loro di fare le madri.