La storia italiana delle riforme istituzionale è alquanto complessa; quello che sta avvenendo riguardo al federalismo fiscale, la cui cifra essenziale la caratterizza come la vera riforma dello Stato, rappresenta un fattore di grande novità in uno scenario alquanto complesso.

Il disegno di legge entra oggi nell’aula della Camera per essere sottoposto al giudizio dell’Assemblea; all’interno delle Commissioni ha ottenuto però il voto favorevole dell’Idv e l’astensione del Pd, confermando in questo modo il suo carattere di riforma bipartisan già conquistato in Senato. È una novità importante per un sistema che sinora, nel suo cammino verso le riforme necessarie a modernizzare il Paese, ha conosciuto solo fasi travagliate.



La prima fase del riformismo italiano è quella che va dalla fine degli anni Settanta alla crisi della Prima Repubblica. Dall’ipotesi craxiana di una grande riforma (1979) al decalogo Spadolini (1982), dalla Commissione Bozzi (1983-85) alla Bicamerale De Mita/Jotti (1992-93), fino anche al Comitato Speroni (1994), è una storia fatta dal susseguirsi di fallimenti politici che non riescono mimicamente a scalfire l’assetto istituzionale.



Un assetto istituzionale che sarà messo in crisi solo dal momento caldo dalla transizione, dall’accendersi dall’epopea referendaria e dallo scatenarsi della rivoluzione giudiziaria di Tangentopoli (seconda fase). L’esito sarà la revisione delle leggi elettorali, sia nazionali che locali: la legge per l’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Provincia (1993), il nuovo sistema elettorale di Camera e Senato (il cosiddetto Mattarellum), la legge per l’elezione dei Consigli regionali (1995) (il cosiddetto Tatarellum).

Un nuovo fallimento politico chiuderà poi l’esperienza della terza Commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da D’Alema (1997-98). A questo fallimento seguirà però la riforma a tappe del Titolo V della Costituzione: la legge costituzionale n. 1 (1999) che prevede la piena autonomia statutaria delle regioni e la legge costituzionale n. 3 (2001) che introduce la riforma del Titolo V. È il momento (terza fase) in cui le riforme si fanno; il metodo però è agli antipodi di quella tradizione che aveva portato nel 1947 ad approvare quasi all’unanimità la “Costituzione di tutti”.



La riforma del Titolo V è una “riforma di parte”, approvata per soli cinque voti in limine mortis della legislatura. Un intero titolo della Costituzione, di capitale importanza, viene dunque cambiato per un colpo di mano della maggioranza parlamentare. Il nuovo bipolarismo italiano si dimostra così in tutto il suo limite: rusticano, basato sulla delegittimazione dell’avversario, manicheo e lontanissimo dai bipolarismi maturi d’Oltralpe.

La stessa cifra si evidenzia nella riforma costituzionale del centrodestra: un progetto di riforma della seconda parte della Costituzione che compie l’iter previsto dall’art. 138 tra il 2003 e il 2005 per poi subire, all’interno di un clima avvelenato, la bocciatura popolare nel referendum istituzionale del 2006.

All’interno di questa difficile e complessa storia, il fatto nuovo è quanto sta avvenendo in merito al federalismo fiscale: una riforma di portata epocale, destinata a immettere nel nostro sistema istituzionale quel principio di responsabilità di cui ha un sanguinante bisogno. Il percorso all’interno delle Commissioni della Camera si è svolto anch’esso in modo costruttivo, ha portato a una serie di modifiche che però non hanno alterato il disegno complessivo della riforma, che rimane incardinato sulle due coordinate del superamento della spesa storica e della tracciabilità dei tributi.

L’unica vittima illustre è la riserva di aliquota – caduta sotto la pressione della sinistra – che avrebbe potuto portare, rispetto all’Irpef, alla configurazione di un sistema analogo a quello spagnolo consentendo alle Regioni di gestire una quota dell’imposta, anche dal punto di vista normativo. Al suo posto è stata prevista l’addizionale Irpef che viene però comunque strutturata in modo da garantire alle Regioni la possibilità di svolgere una propria politica fiscale, lasciando impregiudicata la possibilità di riconoscere i carichi familiari e la detraibilità fiscale delle varie forme di voucher che hanno costituito la novità dei modelli di welfare regionali.

Il fatto politico del consenso bipartisan sulla riforma, se sarà confermato dall’esame da parte del plenum dell’assemblea della Camera, rappresenta allora l’inizio di una quarta fase del riformismo italiano, dove il bipolarismo rusticano pian piano cede il posto ad un bipolarismo maturo, disposto a convergere, in nome del bene comune, su riforme a larga intesa.

È questa una garanzia per il successo delle riforme, ma anche per la democrazia e il futuro cammino del riformismo: un altro segnale interessante in questa direzione è il consenso che si sta registrando sulle linee essenziali della bozza Violante, che, riguardo alla riforma della parte organizzativa della Costituzione, sembra costituire la base di partenza di un processo che, anche in questo caso, potrebbe finalmente configurarsi come bipartisan.

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