Ho conosciuto Marco Biagi nel lontano 1974. Il nostro comune maestro Federico Mancini, fondatore, insieme a Gino Giugni, del moderno diritto del lavoro, mi chiese se ero in grado di dare un passaggio in auto al più giovane dei suoi assistenti, per recarci insieme da Bologna ad Ariccia dove, nella celebre scuola della Cgil, doveva svolgersi un convegno di giuristi sui programmi per i corsi delle 150 ore (l’esperienza che, sulla scia dei mitici metalmeccanici, consentì a centinaia di migliaia di lavoratori di conseguire il titolo della scuola dell’obbligo).
Così diventammo amici. Ambedue bolognesi e socialisti, ci incrociammo in parecchie occasioni durante la mia lunga permanenza ai vertici della Cgil. Presi parte a parecchie iniziative formative organizzate da Biagi, mentre il mio amico divenne uno dei giuristi su cui il sindacato – e in particolare la componente socialista – poteva fare affidamento (anche Massimo D’Antona faceva parte autorevolmente della Consulta giuridica della Cgil che io avevo il compito di coordinare per conto della segreteria confederale).
Il nostro rapporto si rafforzò quando Biagi approdò a Roma, come consigliere (sarebbe meglio dire braccio destro) di Tiziano Treu, allora ministro del Lavoro, poi di Roberto Maroni e di Maurizio Sacconi, quando nel 2001 il centro destra tornò al potere. C’erano fra le nostre famiglie delle simpatiche consuetudini: intorno a Ferragosto veniva sempre l’invito per una grigliata nella residenza estiva di Pianoro sulla Futa. Lì ho visto crescere Francesco e Lorenzo, quegli adorabili ragazzi poi costretti dalla vita a trovare la loro strada in assenza del padre, col dolore di averlo perso in quel modo, in quella maledetta sera di sette anni fa. Stavano per mettersi a tavola insieme alla madre quando avvertirono quei colpi secchi provenire dal porticato dell’ex Ghetto ed avvertirono che qualcosa era radicalmente cambiato nella loro vita.
Che altro dire del professore? Quella di Marco Biagi era una vita organizzata, scandita da orari prestabiliti, da spostamenti consueti, da iniziative programmate e svolte nel minor tempo possibile. Solo così era in grado di governare la mole di opere in cui era impegnato. L’insegnamento prima di tutto; poi i rapporti con gli allievi e gli studenti, tutti in qualche modo associati alle molte attività che il professore svolgeva. Biagi sapeva motivare i propri collaboratori, coinvolgendoli nelle ricerche che gli erano state affidate, nella vita delle associazioni che aveva promosso, nel lavoro redazionale nelle riviste giuridiche che dirigeva o nelle numerose relazioni internazionali intraprese.
Da alcuni anni, oltre che a Bruxelles, Marco doveva recarsi spesso a Roma e misurarsi con i tempi morti dei ministeri, con le trappole della politica. Ma era riuscito ad affermare il suo metodo di lavoro; poco alla volta furono gli uffici ministeriali ad adattarsi alle sue regole, a preparare le riunioni, una appresso all’altra, affinché neppure un minuto andasse perduto. Poi, c’erano gli articoli. Per collaborare a un quotidiano importante come Il Sole 24 Ore o Il Resto del Carlino occorreva prontezza e disponibilità, bisognava saper rispondere in poche ore alla richiesta del direttore prima della chiusura del giornale. Biagi scriveva ovunque, anche sul treno che lo portava da Roma a Bologna, pronto a dettare, via cellulare, ai dimafoni il pezzo, magari durante la sosta nella stazione di Firenze.
Per lui il “fare” era un dovere, anzi una religione. È per questo motivo che le tante iniziative in cui era impegnato non sono finite con la sua morte, ma sono continuate ed hanno ricevuto nuovo sviluppo per l’impegno meritorio di Marina, questa “Madre Coraggio” che è l’animatrice della Fondazione di Modena, e di Michele Tiraboschi, l’allievo prediletto, che continua il lavoro di Biagi all’Università e a fianco del ministro Sacconi. Se qualcuno volesse interrogarsi sull’attualità delle intuizioni e del pensiero di Marco potrebbe documentarsi in completa autonomia, acquistando e leggendo un agile volumetto curato, per i tipi di Edizioni del Lavoro, da Raffaele Bonanni e Michele Tiraboschi, contenente gli scritti di Marco Biagi. Basterebbe mettere a confronto, per trovare delle risposte, le considerazioni e le proposte del professore sui principali temi del lavoro, tuttora al centro del dibattito.
Marco non era certo un “unto del Signore” e nemmeno un genio del diritto. Era una persona informata, attenta a quanto capitava in Europa e nel mondo, consapevole che ai medesimi problemi si possono dare – più o meno – soltanto soluzioni simili. Solo il provincialismo della politica e della cultura italiane può indurre a pensare che da noi si possono scoprire vie nuove, scorciatoie nascoste, capaci di evitare le trappole e le insidie e farci arrivare diritti alla meta. Marco credeva nel benchmarking, sapeva che il compito dell’intellettuale non può essere quello di fermarsi a guardare fisso l’albero che si erge sotto la finestra di casa. Quella visione può favorire la nostra serenità, aiutarci a rendere più solide la nostre radici. Ma il perimetro del nostro campo d’azione non può che essere l’intero pianeta, nel contesto di un processo di globalizzazione che rimette costantemente in discussione i valori, le convenienze e i rapporti.