Nel dibattito sul fine vita il frutto più evidente della semplificazione mediatica, cui siamo quotidianamente sottoposti, si rappresenta nel conflitto tra due posizioni antitetiche, l’una promotrice dell’autodeterminazione del singolo e l’altra dell’inviolabilità della vita umana. Così è gioco facile sentenziare che il ddl Calabrò è “incostituzionale” in quanto, conculcando la libertà di rifiuto della cura, finirebbe per imporre l’alimentazione forzata a chi non la vuole.
La realtà che emerge dal testo di legge è assai diversa e riguarda solo indirettamente la libertà di rinunzia ai trattamenti medici. La legge si occupa piuttosto della fase relativa all’attuazione delle cure da parte del medico, sul presupposto dunque che si sia attivata una specifica e peculiare relazione – la c.d. “alleanza” – tra medico e paziente. Nel percorso decisionale che può determinare una persona a rifiutare una cura, invece, rilevano solitamente più momenti di confronto: con se stessi, con i propri familiari, con la cerchia di persone più intime, persino amici e conoscenti, e, infine, con il medico curante.
Il ddl affronta esclusivamente quest’ultimo rapporto e lo fa escludendo che il medico si renda compartecipe di una scelta del paziente che contrasti con il suo codice deontologico. Il quale già – ovviamente – vieta i comportamenti indicati nel testo Calabrò, secondo il principio cardine che “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte” (attuale art. 36 del codice di deontologia medica). Dunque il medico non può staccare il ventilatore salvavita o interrompere l’idratazione del paziente; cioè, per essere chiari, il medico non può fare ciò che alcuni orientamenti giurisprudenziali hanno legittimato nei casi Welby ed Englaro.
Ma allora dove sta l’incostituzionalità di un testo che si limita a confermare ciò che è già previsto nelle norme di deontologia, ampiamente e diffusamente condivise da medici e pazienti? Se la legge Calabrò fosse contraria alla Costituzione, a ben vedere lo sarebbero anche codice e comportamenti di milioni di medici che sino ad oggi lo hanno osservato.
E’ chiaro a questo punto che la posta in gioco è un’altra: che il medico si renda compartecipe della decisione del paziente anche quando questa vada contro la sua deontologia, così a consacrare per legge gli esiti delle vicende giudiziarie Welby ed Eluana. Ciò che allora è in discussione non è la libertà di rifiutare le cure, già ampiamente garantita come spazio di libertà potendo in qualsiasi momento il paziente o chi per lui rinunciare al ricovero (e così sarà anche a legge Calabrò vigente). Tantomeno il conflitto può ridursi tra paladini del diritto alla vita “a tutti i costi” e promotori dell’autodeterminazione “in tutti i casi”. E’ dunque solo una vulgata mediatica quella che caricaturizza il paziente attaccato forzosamente al sondino.
Chi critica il ddl, in apparenza reclamando la libera determinazione del paziente nei confronti del medico curante, mira all’obiettivo, ben più dirompente, del ribaltamento dei valori di fondo del nostro sistema giuridico-costituzionale che distingue con saggezza ed equilibrio tra scelte del singolo e scelte dell’ordinamento. Il delicato bilanciamento tra libertà dell’individuo e libertà di scelta dell’ordinamento si è, infatti, sin qui realizzato lasciando al primo i più ampi spazi purché la sua azione sia accettata dai consociati. Ove invece operi un giudizio di disvalore, l’azione del singolo rimane circoscritta in un ambito personale ed esercitata attraverso atti personalissimi e non delegabili.
E’ il caso dell’uso di stupefacenti: drogarsi fa male, ma il consumo è tollerato dall’ordinamento, non così però lo spaccio di stupefacenti. E’ il caso del suicidio: privarsi della propria vita non è accettato dai consociati, ma il tentativo di suicidio è immune da sanzione, non così per l’assistenza al suicidio che è un reato. Sulla stessa linea, è possibile rifiutare una cura pur quando ne va della propria salute, ma non esiste un correlativo diritto a coinvolgere il medico per porre fine alla propria esistenza. Questa è l’essenza della nostra democrazia che si fonda su valori e giudizi morali espressione di una comunità.
Ritenere invece che il giudizio sulle scelte del fine vita sia interamente individuale anche quando coinvolge comportamenti di chi, come il medico, è vocato alla cura del paziente, significa sradicare dalle democrazie la coscienza sociale di un popolo. E’ un paradigma inaccettabile e foriero di nefaste conseguenze perché l’anarchia dei valori storicamente ha sempre finito per rendere i deboli ancora più indifesi e i malati ancora più fragili.