Può il Pd sopravvivere a Veltroni? Può l’opposizione non “antagonista” trovare una identità diversa rispetto a quella “autosufficiente” e “a vocazione maggioritaria” prospettata dal segretario dimissionario? Veltroni è caduto – ha riscosso sconfitte – perché il Pd ha insistito in questa strategia oppure perché l’ha abbandonata legandosi a Di Pietro, imbarcando i radicali e facendosi risucchiare dalla protesta extraparlamentare?
Il fatto che il nuovo segretario Dario Franceschini inviti all’autocensura e a non fare dibattiti pubblici può essere una scelta sbagliata nel momento in cui l’elettorato fedele, perso e, soprattutto, potenziale è smarrito, deluso o stordito. Persino in un regime di “centralismo democratico” il Pci aveva offerto ai suoi militanti e all’intero elettorato divisioni anche aspre. Di fronte alla contrapposizione tra Walter Veltroni e Massimo D’Alema che si staglia dalla successione ad Occhetto nel 1994 lungo ormai 15 anni è difficile far analogie con gli scontri tra Amendola e Ingrao. Negli anni sessanta nel Pci ci si divideva apertamente, sezione per sezione, sulla lettura della crisi economica, sul primato del rapporto con i socialisti e i democristiani oppure con gli extraparlamentari, sui contenuti delle lotte rivendicative, sul potere degli enti locali e la partecipazione alle istituzioni della Comunità europea. Nel caso di D’Alema e Veltroni, si pensa invece ad un dualismo, molto personale e tattico, che ricorda le parole di Henri Kissinger (quando non era con Nixon, ma con la sinistra repubblicana di Rockefeller) sulla girandola di posizioni nel Senato americano durante la guerra in Vietnam: “La differenza tra ‘falchi’ e ‘colombe’ è solo una questione di tempo”. E infatti nel corso dell’ultimo anno si è assistito tra i due ad una sorta di balletto nel senso che quando uno si spostava verso Di Pietro, l’altro diventava “garantista” ed entrambi si sono alternati agli occhi di Silvio Berlusconi sia come interlocutore preferenziale sia come intransigente antagonista.
Questa alternanza di ruoli svolta con identica indifferenza da entrambi è forse la conseguenza di una mancata resa dei conti con il passato comunista secondo una nuova identità e piattaforma che segnassero una chiara soluzione di continuità. Non è colpa loro, ma dipende da un complesso di circostanze. Come ebbe a notare dieci anni fa Lucio Colletti, in occasione del primo decennale della caduta del Muro di Berlino: “L’Italia è l’unico paese in cui dopo il 1989 a finire sul banco degli imputati non sono stati i comunisti, ma gli anticomunisti”.
Cresciuti con la “sindrome della socialdemocratizzazione” i ragazzi della Federazione giovanile comunista degli anni ’70 – continuando anche nei loro recenti libri ad esaltare sempre Gramsci, Togliatti e Berlinguer come “razza superiore” – hanno travasato il comunismo in un postcomunismo che sia nella versione Pd sia in quella della sinistra radicale mantiene la stessa identità consolante e motivante. I postcomunisti del Pd in definitiva , compiacendosi di aver fatto “tabula rasa” del socialismo italiano riformista e socialdemocratico, si caratterizzano rispetto a quelli di Bertinotti e Diliberto solo come più moderati e cioè annacquando una comune identità che è rappresentata dal cocktail Antifascismo postfascista-Sessantotto-Mani pulite. Quando ai leader postcomunisti del Pd saltano i nervi o debbono scendere sul sentiero di guerra atteggiamenti e motivazioni risalgono a quel cocktail che li accomuna alla sinistra extraparlamentare dando in definitiva l’ultima parola ad Hamas e al laicismo anti-Vaticano nel segno di un’”altra Italia” secondo la filiera ghibellin-giacobina-gramsciana.
Questa mancata resa dei conti con il proprio passato comunista e marxista porta la componente maggioritaria del Pd ad una sostanziale prassi della “dissimulazione” per cui, ad esempio, Bersani preannuncia di candidarsi al dopo-Veltroni, ma quando, due giorni dopo, Veltroni getta la spugna egli torna nell’ombra confessando così di non essere in grado sia rispetto a Veltroni sia rispetto a Franceschini di poter offrire una linea politica alternativa capace di modificare l’esito delle prossime elezioni europee e quindi rinvia la discesa in campo. Ma costruire le alternative aspettando la somma delle sconfitte può denotare scaltrezza e abilità, ma evidenzia una completa assenza di idee utili a incedere sul corso degli eventi e a modificare la realtà.