Siamo indubbiamente di fronte ad uno dei momenti più appassionanti della Seconda Repubblica: il capo del governo ed il capo dell’opposizione che si affrontano in un duello elettorale senza avere alle proprie spalle – né l’uno, né l’altro – un partito, ma solo un’ipotesi di partito. In palio la credibilità di tale ipotesi per governare il futuro del paese misurandosi sulla peggiore crisi economica del dopoguerra. Chi è sconfitto dovrà ritornare sui propri passi. A favore di Dario Franceschini gioca l’inversione di tendenza nei sondaggi sul Pd. Il partito che fu di Veltroni cessa la serie negativa che registrava un continuo calo di consensi che sembrava farlo precipitare verso il venti per cento ed ora è in ripresa. Così assicura una ricerca commissionata da “Repubblica”. La fonte è autorevole anche se (come tutte) di parte. Ma è indubbio che la nuova leadership ha fatto uscire il Partito democratico – i suoi dirigenti nazionali ed amministratori locali – da uno stato di intontita rassegnazione riportandolo al centro dell’attenzione con un recupero del ruolo di principale antagonista del governo. Franceschini sta animando un contradditorio incalzante e la cronaca politica riporta una dialettica che vede governo e maggioranza su posizioni prevalentemente difensive. Franceschini sta quindi offrendo l’immagine di leader politico nuovo, giovane e all’attacco, che ha ricompattato le varie anime diessine, popolari, margheritine e uliviste riuscendo a sviluppare un’opposizione che da un lato si presenta di netta alternativa al governo, ma, dall’altro, capace anche di pesare e cioè di conseguire risultati positivi come sulla revisione del patto di stabilità per gli enti locali . La maggioranza pur disponendo di un ampio margine è dovuta scendere a patti. Il dato di fondo è il recupero di una strategia di stampo “ulivista” – anche se Franceschini allontana con un “brivido” la mera riedizione del passato – come testimoniato dalla soddisfatta reiscrizione di Romano Prodi che ha sottolineato la svolta in tal senso di Franceschini rispetto alla vocazione maggioritaria e all’autosufficienza del periodo veltroniano.
Ma proprio questa riedizione della strategia prodiana del “cartello” antiberlusconiano (Franceschini naturalmente premette il rifiuto di tale connotato che però conferma con l’accentuazione degli attacchi personali) che è alla base della vigilia della campagna elettorale per il Parlamento europeo vede non docili i principali destinatari di questa nuova alleanza patrocinata dal Partito democratico. Nessuna delle forze di opposizione intende ovviamente presentarsi al corpo elettorale riconoscendo a Franceschini un ruolo di fratello maggiore. Nell’opposizione che ruota a destra e a sinistra del Pd è tutto un “marciare divisi e colpire uniti” in polemica con il Pd. Innanzitutto la sinistra extraparlamentare che si sta variamente riorganizzando vede il nuovo test elettorale come un’occasione di rivincita e di rilancio rispetto alla mannaia subita alle politiche. E’ sempre un contro-coro con da un lato Ferrero che ha contestato la proposta del sussidio ai disoccupati e dall’altro il conglomerato socialisti-verdi-exDs che candida Englaro mettendo sotto accusa la presenza cattolica nel Pd. Ma è da parte delle altre due opposizioni presenti in Parlamento che il Pd viene più vistosamente incalzato e scavalcato a cominciare dal suo annuncio di astensione sul federalismo: Di Pietro va all’accordo diretto con la Lega assicurando il voto favorevole mentre Casini guida il voto contro. Un lavoro ai fianchi che ha messo in moto i dissensi interni che tornano a rumoreggiare colpendo Franceschini anche in questo caso sia in nome del Nord sia in nome del Sud: da un lato il presidente della regione Piemonte, Mercedes Bresso, definisce un errore l’astensione in nome della contestazione della Lega al Nord e dall’altro Massimo D’Alema sentenzia beffardamente che la “questione settentrionale” non esiste ed è “un falso storico”. E Pierferdinando Casini accentua lo “spariglio” annunciando il voto favorevole sul piano casa. Più “antagonista” verso i cedimenti alla Lega e più “responsabile” sui cantieri che danno lavoro insidiando il Pd soprattutto al Sud dove D’Alema ha organizzato il fronte del meridionalismo come antiberlusconismo.
A sua volta Berlusconi sfodera il “basso profilo” vittimista e reagisce appunto stando sulla difensiva. Gli attacchi di Franceschini sono accusati quale “disturbo” nei confronti di chi, come Giulio Tremonti, sta lavorando per il bene del Paese in un momento tanto drammatico.
E’ questo però il vero punto di forza, ma che può anche essere di debolezza di Franceschini. Tutta la polemica nei confronti del governo si basa su un punto fondamentale. E cioè il governo cerca di non creare panico ed ulteriore allarmismo ed al pari di tutti gli altri governi – di destra o di sinistra – conduce una campagna sdrammatizzante e tesa a ricreare condizioni di fiducia. A differenza di altri governi e paesi, l’Italia è meno esposta e la politica economica generalmente apprezzata sia dai laburisti sia dai franco-tedeschi. Franceschini punta tutto sul fatto che la crisi economica da qui al voto peggiori e che i danni si facciano maggiormente sentire. Alla sdrammatizzazione di Berlusconi replica accusando il “premier” di sottovalutare la crisi e di prendere quindi tutte misure inadeguate. Fin qui è solo questione di propaganda più o meno convincente, ma il Pd di Franceschini getta ben altro sul piatto della crisi e cioè l’incitamento alla radicalizzazione delle parti sociali almeno fino al voto delle europee sollecitando soprattutto la Cgil nel promuovere la contestazione del governo. E il governo con Sacconi lo accusa di irresponsabile antipatriottismo ovvero di “stress sociale”.
A questo punto il vero sondaggio è quello finale nelle urne. Già altre volte il principale partito dell’opposizione fu accusato dal suo stesso interno (lo fece Giorgio Amendola nei confronti di Enrico Berlinguer in riferimento alle lotte sindacali sollecitate dal Pci nel 1979) di “costruire il successo sulle rovine del paese”. In particolare due sono gli interrogativi sulla efficacia – e soprattutto la credibilità – della politica svolta da Franceschini. E’ davvero realistica l’idea di presentarlo come l’anti-Tremonti? D’altra parte gli altri possibili contraddittori di Tremonti – a cominciare da Bersani – hanno una posizione più defilata sul metodo e più moderata sul contenuto. Il secondo interrogativo riguarda la validità di rinunciare alla strategia “maggioritaria” di Veltroni. L’Ulivo rappresenta uno schieramento unito in sostanza dal collante antiberlusconiano. E’ la sinistra italiana che se vince definisce l’Italia una democrazia e se perde agita lo spettro del fascismo. Ma una volte divenuto maggioranza l’Ulivo – agli occhi degli elettori – ha rappresentato una coalizione incapace di governare. Franceschini ha il vantaggio della “novità” sul piano personale, ma sul piano politico personifica un ritorno al passato ovvero alla politica del cartello anti. Nella situazione attuale – anche alla luce di come nel Pdl si realizza l’unificazione tra Fi ed An – non è stato troppo affrettato azzerare la strategia che aveva dato l’identità alla fondazione del Partito democratico? Veltroni perdeva le elezioni parziali perché insisteva nella vocazione maggioritaria oppure – al contrario – perché rincorreva Di Pietro e l’elettorato “antagonista”? Veltroni non aveva conseguito un risultato deludente. Il 33 per cento rappresentava un vistoso recupero ed era a livello dei maggiori successi dell’epoca ulivista.
Con quella politica “a vocazione maggioritaria” senza compromessi con giustizialismi e antagonismi, di fronte alla crisi economica, il Pd poteva contare in primo luogo sui tre principali sindacati e su gran parte della Confindustria. In secondo luogo aveva come piena copertura l’impegno personale del Capo dello Stato che non perde occasione per patrocinare una politica di larghe convergenze, ma certamente Napolitano non ha margini di manovra se la principale forza di opposizione si arrocca. In terzo luogo una politica “autosufficiente”, che non ha il problema di rincorrere le altre opposizioni, ma può contare su forti appoggi sociali ed istituzionali si trova a poter mettere in serie difficoltà il governo sul piano politico. La politica di Veltroni poteva incunearsi nella maggioranza trovando come interlocutori sia Gianfranco Fini sia Umberto Bossi.
L’errore su cui rischia di insistere Franceschini è quello di andare all’attacco del partito berlusconiano di plastica mentre il berlusconismo, approfittando delle nebbie del nuovo indefinito partito, si è trasferito agli occhi dell’opinione pubblica in un’azione di governo che da Tremonti a Sacconi volta con una certa credibilità internazionale nella tutela del potere d’acquisto dei salari e della non liquefazione dei risparmi.
Forse in questo momento, a sinistra si dovrebbero accantonare i guru della comunicazione guardando meno a Barak Obama e più a Gordon Brown.