Nell’intermezzo tra due congressi (quello di un partito che muore, An, e quello di un partito già nato e che ora riceve il battesimo politico-istituzionale), resta lo spazio breve per riflettere sulla posizione espressa domenica dall’ex leader del partito morente, Gianfranco Fini, e sugli scenari che tale posizione apre nel centrodestra. Stefano Folli, notista politico del Sole 24 Ore, riconosce a Fini, al di là di quelli che potranno essere gli esiti ultimi della sua strategia, il fatto di aver attuato una scelta politica chiara, e come tale degna di rispetto.



La confluenza di An nel Pdl ha dato l’impressione di sancire la conclusione delle guerre tra Fini e i suoi vari colonnelli: può essere allora il vero inizio di una nuova stagione per Fini, che si smarca completamente dal suo partito di provenienza per giocare in solitaria?

Innanzitutto riconosciamo a Fini di aver fatto domenica un discorso di spessore politico notevole, il cui contenuto è certo una sorta di sfida a Berlusconi, ma che porta pure una visione istituzionale forte, e in parte anche originale. Ed è innegabilmente una visione diversa da quella di Berlusconi.



Qual è il punto centrale della posizione di Fini?

Come già era emerso da tempo – e questo ora si è chiarito in modo definitivo –, Fini si è andato sempre più delineando come una figura politica con un impianto istituzionale di tipo classico, basato sulla difesa del Parlamento e delle sue regole. Ed è in questo senso che egli parla anche del Pdl come di un partito “nazionale”, senza un “pensiero unico”, lanciando una sfida alla visione di cui Berlusconi è portatore. Da una parte in questo c’è abbozzato un progetto istituzionale, di un Paese che si rinnova con regole precise nel rispetto del Parlamento; dall’altra parte si lascia intendere che c’è il rischio di una deriva plebiscitaria, di un partito insofferente alle regole. Così facendo Fini va oltre il suo partito di provenienza, che è abbondantemente acquisito al sistema di potere di Berlusconi. È un uomo che gioca il suo destino in una zona di confine tra politica e istituzioni.



Il richiamo al ruolo del Parlamento è sicuramente un tema importante. Ma con questa presa di posizione, in un momento in cui si chiede alla politica di “decidere” più che di “rispettare le regole”, Fini non rischia – come già altre volte in passato – di intraprendere una strategia poco fruttuosa?

Certo, rischia moltissimo, e la sua potrebbe essere una scelta sbagliata. Però – e questo gli fa onore – è la scelta di uno che vuole giocare la partita dentro le regole di uno stato liberale. Il successo notevole di Berlusconi è quello di un uomo che punta tutto su se stesso. Anzi, diciamo pure che il messaggio di Berlusconi è lui stesso, e non c’è in questo una visione del futuro del Paese. Fini prova a introdurre questa visione, lanciando una scommessa decennale che guarda al dopo-Berlusconi. Il rischio che sia una scommessa perdente è molto alto, soprattutto in relazione al fatto che lui ha perso il partito, e che ora – a parte il fatto di essere uomo delle istituzioni – si trova ad avere ben poco peso politico. Questo spiega perché egli debba puntare sul dialogo con l’opposizione, e su un eccellente rapporto con il Capo dello Stato. Si tratta certo di una scelta rischiosa, ma nel medio e lungo periodo potrebbe anche reggere.

E il resto di Alleanza nazionale vive più pacificamente il passaggio al nuovo partito?

Secondo me sì, per diversi motivi. Innanzitutto il fatto che il vecchio Msi era più che preparato ad accettare un personaggio come Berlusconi proprio perché carismatico e un po’ fuori dalle regole della Prima Repubblica. Quindi coloro che in An avvertono di più l’eredità del vecchio partito sono stati maggiormente pronti a passare dalla parte di Berlusconi (il quale poi sa ben trattare con gli uomini e dare porzioni di potere). Poi c’è un nucleo più vicino a Fini, che certo rimane; però è la scommessa stessa di Fini a postulare il fatto che egli non abbia un peso politico diretto nel nuovo partito. Fini dice chiaramente di non voler portare una propria identità nel partito; il che tradotto significa che non vuole fare il capo della corrente di An. Si pone con una partita molto ambiziosa, personale, che è quella di costruire i nuovi assetti istituzionali.

Adesso siamo in attesa del congresso fondativo del nuovo partito: questo passaggio definitivo può influire sui prossimi appuntamenti elettorali (europee e amministrative), in un momento in cui Berlusconi vede Franceschini che recupera consensi?

Franceschini è ora in risalita perché fa un discorso molto centrato sulle questioni sociali, e quindi recupera un certo elettorato di sinistra che altrimenti avrebbe potuto rifugiarsi nell’astensione. Ciononostante, non ritengo che Berlusconi debba temere di rimettere qualcosa dalla nascita del nuovo partito; sarebbe stato peggio andare alle elezioni senza risolvere questo nodo, dal momento che già i due partiti si chiamavano Popolo della Libertà, e avevano tutte le caratteristiche del partito unico senza esserlo ancora. E la nascita definitiva del Pdl è un bene anche per An, che era ormai data calante nei sondaggi. Quindi si fa la cosa che nel presente è inevitabile. Poi, però, si apre una sfida diversa, che si gioca nel lungo periodo.

Qualche dispersione di voti però ci sarà; e la Lega è già lì in agguato, con Calderoli che dice «i voti degli scontenti li prendiamo noi»…

La Lega può effettivamente raccogliere i voti di una dispersione che è fisiologica in questi momenti. Ritengo inoltre che questo possa accadere a maggior ragione nelle prossime elezioni, che possono  portare un po’ di voti ai partiti che si pongono fuori dallo schema bipolare, come Lega e Udc. E forse anche l’estrema sinistra, anche se questo dipende da quanto riuscirà a recuperare Franceschini con la sua strategia. Le europee sembrano fatte apposta per dare voce a queste liste. Quindi sarà un appuntamento elettorale da cui si potranno capire fin da subito alcuni importanti esiti delle scelte di questi giorni.

(Rossano Salini)