A bocce ferme e mente fredda, il discorso di Gianfranco Fini al congresso di scioglimento di Alleanza Nazionale appare per quello che è: un contributo alto e misurato, da statista prima che da leader di partito, da stratega (arte in cui Fini non ha mai eccelso, in realtà) prima che da manovratore.

Lo hanno riconosciuto tutti, questo livello non usuale nello scenario politico italiano abituato al breve periodo, alla tattica del potere per il potere. Il discorso di Fini sintetizza un lavoro di elaborazione teorica che un intero mondo intellettuale sta macinando da molti anni. Tale sforzo di immaginazione politico-culturale caratterizza con forza il mondo dei pensatoi ormai post-aennini, garantendo una originalità e una solidità decisamente superiore a quanto non siano oggi in grado di fare dalle parti di Forza Italia, dopo la notevole spinta innovativa degli inizi. Non a caso Fini ha chiaramente parlato del futuro Popolo delle Libertà come ad un partito unitario in cui però non è previsto un “pensiero unico”. Insomma, Gianfranco Fini propone una prospettiva culturale e ideale a tutto campo, potendo disporre di una capacità di elaborazione che dentro il Popolo delle Libertà può puntare (non senza rischi) ad una egemonia di fatto.  



Sullo sfondo di questa nuova formulazione teorica, che Fini ha espresso all’assise romana ma che da molti mesi ha iniziato a mettere a punto, c’è l’esperienza della cosiddetta Nuova destra, che tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta seppe modernizzare fortemente una cultura rimasta intorpidita tra memoria e restaurazione del bel tempo che fu. Nata in Francia grazie al filosofo Alain De Benoist, trovò una propria strada anche in Italia grazie al politologo fiorentino Marco Tarchi, paradossalmente gran nemico di Fini all’interno dell’allora Fronte della Gioventù e in seguito critico feroce del cammino alternante dell’attuale Presidente della Camera. Tarchi importò le idee transalpine, provando a depurarle (non sempre con successo) da una certa ipoteca anti-cristiana e paganeggiante, che costituì la base per un relativismo culturale assai marcato.



Da quel movimento arrivano i più fecondi ispiratori del Fini-pensiero: dal politologo perugino Alessandro Campi, direttore scientifico della Fondazione Fare Futuro (il think tank di Fini), al vice Direttore del “Secolo d’Italia” Luciano Lanna, che del quotidiano rappresenta il principale animatore culturale. Così come sui testi di quella scuola si è formato il più giovane Angelo Mellone, divulgatore di una destra “pop”, anch’egli ispiratore (come direttore editoriale) di “Fare Futuro”, editorialista de “Il Giornale” e co-curatore (insieme a Campi) del volume fresco di stampa “La destra nuova” (ed. Marsilio).



A questo terzetto (ma certamente non solo a loro) si devono alcuni elementi caratterizzanti l’attuale pensiero finiano, due dei quali appaiono destinati a dettare l’agenda del confronto interno, caratterizzando l’identità stessa del nuovo partito e la sua dialettica interna.

Primo tra tutti il riferimento a quell’etica repubblicana che fa di Fini il Sarkozy italiano. Un’etica della responsabilità, che si accoppia a una rigorosa distinzione tra ciò che è pubblico (lo spazio della politica) e ciò che è privato (lo spazio della religione). Terreno scivoloso, su cui dentro il PdL si giocherà una partita complessa, già sperimentata sul caso Eluana e su altri temi bioetici (ad esempio la fecondazione artificiale). Nel futuro multietnico e multireligioso preconizzato da Fini nel suo discorso, non sembrerebbe esserci spazio per l’elemento religioso, neutralizzato nel dibattito repubblicano. Una linea, quella di Fini, che entra in collisione con la prospettiva rilanciata dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno, fautore di un chiaro richiamo all’identità cattolica come elemento centrale per un’autentica laicità.

Il riferimento al repubblicanesimo apre dunque una questione spinosissima, che investe molti aspetti della vita sociale e che segnala una contraddizione piuttosto marcata (e ancora irrisolta) nello schema logico finiano. L’inserimento del principio di sussidiarietà orizzontale tra i valori fondanti del futuro partito unitario del centro-destra, logica conseguenza di quel primato della persona che Fini ha posto al primo punto del suo discorso, sposta l’asse dello spazio pubblico dallo Stato alla società, dal civico al civile. Come coniugarlo con l’orizzonte repubblicano di cui Fini si fa portatore? Come tenere insieme un principio che esalta le identità con la necessità di costruire un’unica identità per tutta la nazione? Il caso dell’educazione rappresenta il primo e più cruciale banco di prova di questa difficile conciliazione. Qualche tempo fa lo stesso Mellone su “Il Giornale” parlò della scuola statale come del luogo, cruciale e necessario, dove “forgiare il cittadino repubblicano” (sig!). È questo che ha in mente Fini? Se così fosse, la scuola non statale resterebbe un elemento da sopportare per non dar troppo fastidio alla Chiesa, ma certamente non parte integrante di un sistema educativo autenticamente pluralista e ispirato al principio di sussidiarietà orizzontale. Analogamente, sul campo minato delle questioni etiche (testamento biologico, eutanasia ecc.) il riferimento a un repubblicanesimo depurato da qualunque ancoraggio morale e garante della più radicale libertà individuale sembra portare Fini a vaneggiare una “neutralità laica” dello Stato che non pare adeguata (il caso Englaro lo dimostra) a proteggere la dignità delle persone più deboli. L’apertura finiana alla prospettiva individualista dei diritti civili, anch’essa figlia legittima delle elaborazioni culturali della Nuova Destra e di un certo “libertarismo” che Luciano Lanna ha di recente rilanciato sul “Secolo d’Italia”, va sicuramente in questa direzione e rappresenta una scelta di campo dal forte sapore ideologico, destinata ad aprire conflitti molto forti tra le diverse anime del futuro PdL. Anche se, al contempo, questa innovazione culturale libera il pensiero della destra da qualunque retaggio di tipo xenofobo, consegnandolo definitivamente alle intemperanze identitarie di matrice leghista.

Più lineare e privo di contraddizioni appare invece il riferimento all’economia sociale di mercato, chiave di volta per superare le evidenti storture generate dall’interpretazione liberista della globalizzazione. La proposta figiana di un capitalismo ben regolato dalle norme (nazionali e internazionali) e ben temperato da riferimenti etici e morali permette al pensiero di destra di superare l’ipoteca dell’anticapitalismo ideologico ereditato dal fascismo, senza scivolare nelle utopie liberiste che così profondamente hanno segnato una parte della storia politica di Forza Italia. Su questa posizione si prospetta un asse culturale molto trasversale, che oltre a incassare lo scontato apprezzamento di Alemanno (storico sostenitore di questa impostazione) e Giulio Tremonti (più recente leader del pensiero anti mercatista), può aprire la strada a inediti incontri culturali con il cuore cattolico presente in Forza Italia. Se sul tema del repubblicanesimo le posizioni del presidente della Camera sono destinate ad aprire conflitti non secondari, su questo secondo versante arriva invece un contributo di idee capaci probabilmente di definire una linea di pensiero comune al nuovo Partito e in linea con le esigenze della nostra epoca.