Il presidente Kgalema Mothlanthe lo ha detto chiaro e tondo: la presenza del Dalai Lama avrebbe creato imbarazzo al Sudafrica e sarebbe stato «fonte di pubblicità negativa per la Cina». Salta, così, la visita in Sudafrica del Dalai Lama, che avrebbe dovuto partecipare alla conferenza organizzata dalla Federazione Calcio sul tema “Il football contro razzismo e xenofobia”, in vista dei prossimi mondiali del 2010. Non appena il governo ha capito che la visita sarebbe stata sgradita alla Cina, che in Sudafrica concentra il 20 per cento dei propri scambi commerciali con il continente africano, ha negato il visto d’ingresso alla massima autorità religiosa del Tibet. Immediate le polemiche: Mandela, de Klerk e Mons. Tutu, premi Nobel per la pace, hanno subito condannato la decisione del governo. Ma quanto conta, oggi, la potenza neoespansiva della Cina? Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Francesco Sisci, inviato a Pechino del quotidiano La Stampa.



Gli interessi economici hanno avuto la meglio e il Sudafrica ha pensato bene di non deludere uno dei suoi principali investitori. Mettendo da parte i diritti umani.

Sì, la realpolitik ha avuto la meglio. Ma c’è un aspetto che vale la pena ricordare e che può gettare una luce significativa su quello che stiamo dicendo. In questi stessi giorni Taiwan, bastione per eccellenza dell’opposizione alla Cina in Asia, ha escluso che il Dalai Lama possa fare una visita nell’isola. Perché? In passato il Dalai Lama veniva usato da Taiwan in modo strumentale, per dar fastidio alla Cina. Ma ora che la situazione è complessivamente migliorata, Taiwan ha abbandonato questa politica.



Sta denunciando il fatto, in altre parole, che il Dalai Lama può essere utilizzato in chiave strumentale. La sua vicenda e quella del Tibet, tuttavia, rappresentano un esempio macroscopico di negazione della libertà religiosa.

In realtà occorre sempre vedere la situazione in profondità, senza accontentarsi di alcune facili semplificazioni. Il Dalai Lama viene usato da anni, almeno da alcuni establishment politici, non in quanto figura religiosa, ma in chiave anticinese. Questo il Dalai Lama lo sa benissimo e usa a sua volta tali strumentalizzazioni per i propri scopi di sensibilizzazione, cercando di far avanzare la sua agenda politica.



Sta dicendo che quando si ospita il Dalai Lama, anziché dare voce alla causa del Tibet, si cade nel gioco di interessi politici contrastanti?

C’è un fatto: il Dalai Lama ha un’agenda politica. Ma se c’è una agenda politica del Dalai Lama, e se c’è un’agenda politica sul Tibet da parte della Cina, uno stato che apre al Dalai Lama assume il problema anche nelle sue implicazioni politiche, e non soltanto nella sua dimensione religiosa. O almeno così la pensa Pechino.

Lo ha capito benissimo il Sudafrica: dopo le recenti vicende tra Cina e Tibet si è guardato bene dal fare qualcosa che potesse urtare il governo di Pechino.

Sì. Il che dimostra che se la questione è politica, allora ognuno fa calcoli politici. Ma la cosa che spesso sfugge, in occidente, è che la dialettica tra Tibet e Cina non è diritti umani contro politica, ma politica contro politica. Il problema è che il Dalai Lama è in una posizione estremamente difficile perché, non avendo separato la politica dalla religione, il suo ruolo è politico e religioso insieme. Di conseguenza usa la sua figura religiosa per avanzare una causa politica. Non quindi quella del lamaismo nel mondo, a Pechino, a Bangkok o a Tokio, ma la causa politica del grande Tibet.

Esattamente quel che il governo di Pechino non è disposto a concedere.

Infatti. La questione è controversa perché c’è una differenza di opinioni tra il Dalai Lama e Pechino su cos’è il Tibet. Il Dalai Lama per Tibet intende il grande Tibet, un quarto del territorio cinese, ma abitato da meno di sei milioni di tibetani. Sei milioni di tibetani su un miliardo e 400 mila cinesi fa lo 0,4 per cento della popolazione. Mentre Pechino è disposta a parlare solo della regione autonoma del Tibet, pari a circa la metà del Tibet storico. E poi viene la questione, altrettanto controversa, del tipo di autonomia che il Dalai Lama richiede. Ha chiesto il ritiro delle truppe cinesi dal Tibet, ma quale stato sovrano ritira le truppe da un territorio suo? Come si vede, i termini del problema sono eminentemente politici. A questo punto molti paesi useranno la causa politica che conviene loro di più. Come ha fatto il Sudafrica.

C’è nel continente africano un “neocolonialismo” cinese, col quale gli stati vengono facilmente a patti in cambio di sovvenzioni e risorse?

 

È un fatto che il governo cinese non si comporta in Africa nella maniera più ortodossa. La Cina si fa forte del fatto di non avere in Africa un passato grave e compromesso come quello degli europei, fatto di sfruttamento e schiavitù. Così il passato diviene il fattore che pregiudica l’orientamento di molti governi africani verso gli europei, che offrono aiuti ma dettano condizioni. Questo fa sì che molti paesi sentano una nuova forma di imposizione coloniale e che adottino un’opzione di tipo pragmatico, preferendo gli investitori cinesi, che offrono soldi senza chiedere condizioni.

Esiste dunque una rivalità tra paesi occidentali e Cina in Africa?

Sì. La presenza di europei, americani e cinesi fa aumentare le “quotazioni” degli africani, che si trovano a fare i conti con tre diversi “acquirenti”. Il vantaggio che offre la Cina è quello di rendere produzioni e prodotti più accessibili, facendo aumentare rapidamente e in modo tangibile – rispetto, ad esempio, a lunghi piani di cooperazione – la qualità della vita. Naturalmente insieme a questo c’è l’aspetto, assolutamente negativo, degli aiuti a regimi criminali. È un problema che va affrontato.

Nel frattempo, è ufficiale che al prossimo G20 Hu Jintao non incontrerà Sarkozy.

Non incontrerà Sarkozy, a meno che il presidente francese non risolva lo strappo con Pechino (per aver ricevuto il Dalai Lama, ndr). E probabilmente, sempre per le questioni legate al Dalai Lama, al quale Alemanno ha conferito la cittadinanza onoraria, non incontrerà Berlusconi. Non è una notizia ufficiale, perché non abbiamo la certezza che Hu Jintao non incontrerà Berlusconi; ma non sappiamo ancora se l’incontro avverrà. E questo, a meno di una settimana dal G20, è un fatto sul quale vale la pena riflettere.