Giovedì scorso il ddl sul testamento biologico è stato approvato dal Senato e ora passa alla Camera. Si sono scatenate però le polemiche. Tra i punti più controversi la cosiddetta non vincolatività delle Dat: il medico infatti prende in considerazione quanto dichiarato nelle Dat, ma può non seguirle, motivando il perché della sua decisione. «Agli italiani – ha detto la capogruppo del Pd Anna Finocchiaro – avete spiegato che questa era una legge per poter scrivere il proprio testamento biologico, ora gli dite che invece non contano più niente». E il senatore Umberto Veronesi ha invitato gli italiani a scrivere e depositare il loro testamento biologico prima che la legge entri in vigore. Perché «all’occorrenza un buon magistrato potrà farlo valere». È proprio la situazione che volevamo evitare, dice a ilsussidiario.net il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella: il “far west” del testamento biologico, cioè «passare, anziché dal Parlamento, dalle sentenze dei magistrati».
Sottosegretario Roccella, ipotizziamo che la legge sul fine vita vada in vigore nella versione del ddl varato dal Senato. Cosa ne sarebbe di un altro caso Englaro?
Il punto è proprio questo: con la legge che sarà in vigore non sarà più possibile alcun “caso Englaro”. Devo comunque riconoscere che il verificarsi di un caso Englaro sarebbe difficile con qualunque dei progetti di legge che erano in discussione al Senato, perché l’anomalia del caso di Eluana è che non c’erano volontà scritte e questo ha consentito la ricostruzione delle sua ipotetica volontà da parte dei giudici. Quando si dice che Eluana è morta a causa di una sentenza non solo si dice l’assoluta verità, cioè che una sentenza ha consentito il distacco del sondino, ma anche che attraverso una sentenza è stata ricostruita la sua volontà di morire.
Umberto Veronesi, intervistato da Repubblica, ha detto che il ddl è antidemocratico, antistorico e anticostituzionale e ha lanciato un appello agli italiani: «scrivete il vostro testamento biologico prima che questa legge che lo vanifica entri in vigore. All’occorrenza, un buon magistrato potrà farlo valere». Che ne pensa?
La sua è una legittima provocazione politica, che ha il merito di esplicitare quello che stava effettivamente avvenendo: il “far west” del testamento biologico. Lo abbiamo visto in altri paesi, come l’Olanda. La prassi della sospensione delle cure in Olanda è stata prima introdotta attraverso sentenze e prassi mediche e solo alla fine è passata per il parlamento. Questo è l’indirizzo che stavano seguendo in Italia i fautori – più che del testamento biologico – del diritto a morire: passare dalle sentenze dei magistrati e creare una situazione di fatto della quale il Parlamento avrebbe potuto solo prendere atto.
Una posizione della quale la proposta di Veronesi esprime la formulazione coerente.
Sì. Penso che quello che dice Veronesi illumini molto bene sull’indirizzo che alcuni volevano intraprendere. Ma credo che per i cittadini il fatto che si passi dal Parlamento sia una garanzia fondamentale, perché il Parlamento esprime la volontà degli elettori. Che, se vogliono, possono bocciare l’operato dei politici, ma non quello dei magistrati.
Uno dei punti salienti del ddl è il rapporto fiduciario tra paziente e medico, formulato nel principio che riconosce come “prioritaria l’alleanza terapeutica”. In molti però hanno obiettato che le Dat sono rimaste senza vincolatività. Ecco perché l’opposizione ha accusato la maggioranza di aver “svuotato la legge”. È così?
No, e questo è un punto fondamentale che va chiarito. Noi abbiamo sempre detto che questa legge aveva tre punti fondamentali: la certezza della dichiarazione – quindi autenticata, frutto del consenso informato – , poi il principio dell’idratazione e alimentazione assicurate a tutti, e infine il fatto che non fosse vincolante per il medico. Il ddl presentato dal senatore Calabrò in commissione conteneva esattamente questi punti. Di conseguenza non è caduta nessuna vincolatività, perché non c’è mai stata. La maggioranza quindi non ha fatto un emendamento aggiuntivo “togliendo la vincolatività”, ma ha semplicemente ripristinato il ddl Calabrò originario.
In commissione, però, c’è stato un emendamento che inseriva la vincolatività del medico alle Dat.
In commissione un emendamento non dell’opposizione, ma di un’area della maggioranza inseriva la vincolatività con l’eccezione dell’articolo 7. Ma è una cosa più simbolica che fattuale, perché secondo l’articolo 7 il medico ha un margine di autonomia professionale che gli permette di dichiarare che non rispetterà le Dat, spiegandone i motivi sulla cartella clinica.
Perché la maggioranza ha deciso di abbandonare quella formulazione tornando al testo Calabrò originario?
L’emendamento di maggioranza recitava “vincolante con l’eccezione dell’articolo 7”, quindi dava più che altro un peso simbolico maggiore alle Dat pur senza cambiare la sostanza, cioè che il medico non può prendere in considerazione indicazioni contrarie alla tutela della vita del paziente. Questo emendamento è stato ritenuto poco chiaro, ipotizzando che potesse creare ambiguità presso la magistratura, dando l’opportunità ai magistrati o alla Corte costituzionale di inserirsi in una norma che poteva sembrare contraddittoria.
A suo avviso è prevalso il dialogo oppure ha ragione l’opposizione di dire che da parte della maggioranza si è “blindato” il ddl?
No, perché in commissione il dialogo c’è stato, per esempio i primi tre articoli sono stati riformulati in un unico articolo, il primo, raccogliendo vari suggerimenti della minoranza. Abbiamo accolto un emendamento Finocchiaro sull’inserimento del consenso informato all’articolo 1, cioè in sede di dichiarazione di principio. Il consenso informato era già presente all’articolo 4 ma è stato spostato perché la legge potesse aprirsi con una “dichiarazione di intenti”.
Come spiega allora le forti polemiche che hanno accompagnato l’approvazione?
Penso piuttosto ad un fatto politico. Il dialogo infatti c’è stato non solo in commissione, ma anche nella prima parte delle votazioni in aula. Tant’è vero che una parte dell’opposizione ha votato con noi più volte, soprattutto durante il voto segreto. Ma il secondo giorno questioni di equilibri interni, posso immaginare, hanno portato ad una radicale contrapposizione. Ne hanno fatto le spese gli emendamenti Baio e Bianchi: noi eravamo disposti a votarli, ma poiché era venuta meno la disponibilità da parte dell’opposizione, abbiamo ritirato il nostro consenso e lasciato all’aula la decisione e l’aula li ha bocciati.
Ora il ddl va alla Camera. Ci sono non pochi dissidenti, da Pera a Pecorella e Della Vedova. Vede il rischio di divisioni nella maggioranza?
Vedremo. Intanto il ddl ha dato una chiara manifestazione di compattezza, il che non ha impedito che ci fossero più voci di dissenso da noi che nell’opposizione. Che ha tuonato contro la nostra compattezza, ma ci ha dato più volte quindici, venti voti nelle votazioni segrete. Da noi comunque c’è una vera libertà di coscienza.
Esiste un deficit di laicità nella maggioranza?
No, perché non c’è un “diritto prevalente”, come ci viene rimproverato da più parti, ma un indirizzo coerente fondato su visione antropologica condivisa; che nulla toglie alla libertà personale. Ma la libertà di coscienza non è la mancanza di una visione antropologica condivisa dal partito; è la discrezionalità individuale che su questa si fonda e rimane legittima.
Cosa le rimane, come persona, di tutta la vicenda Englaro, dal punto di vista personale e politico?
Una grande amarezza, perché nel momento in cui davvero pensavamo di riuscire a salvare Eluana, quella notte, non ci siamo riusciti. Questo è rimasto come un segno, un senso di impotenza che ci ha segnato tutti. Ma anche la volontà che non ci sia mai più un caso Eluana. Mi auguro che sia la volontà di tutti e ho fiducia che anche alla Camera prevalga il buon senso.