Credo che sul tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento il Parlamento abbia a disposizione un’occasione fondamentale per riaffermare il proprio ruolo nel nostro sistema istituzionale.

Si parla forse troppo spesso di marginalizzazione delle Camere, a fronte dell’innegabile crescita di potere dell’esecutivo, da un lato, e della giurisdizione dall’altro, senza contare i ben noti svuotamenti della capacità normativa interna dovuti al ruolo delle istituzioni europee. Ma questa volta il rappresentante della sovranità popolare deve occuparsi di una questione centrale, che aiuta a delineare in modo evidente il tipo di società in cui vivremo nei prossimi anni.



Se il Parlamento dovesse abdicare a questo compito, e non riuscire portarlo a termine, sarà un segnale decisivo della sua decadenza. Eppure, la legge è attesa dall’opinione pubblica. Sono in molti a non attribuire legittimità alle scelte compiute dalla giurisdizione in tema di fine vita, non solo per il loro contenuto, ma proprio per la loro provenienza; e ha ragione chi sostiene che se il Parlamento non interviene, dovremo subire le scelte occasionalistiche del giudice di turno, nonché le sue convinzioni.



Se si scorre la sentenza dalla Corte di Cassazione sul caso Englaro, si ha quasi la sensazione di leggere una pastorale, a metà tra la creazione di nuovo diritto e l’imposizione di un’etica giudiziaria. È l’esempio estremo di un singolare modo di creazione di regole giuridiche, frutto di una preoccupante tendenza paternalistica e antidemocratica.

Il fatto è che tra i giuristi va di moda oggi l’acritica esaltazione di forme di “bioequity”, cioè di produzione giudiziaria di regole giuridiche nei settori delicatissimi del fine vita, realizzata da magistrati o da giuristi “sapienti” e illuminati, in assenza di leggi o anche contro ciò che il legislatore dispone (valga l’esempio del Tribunale di Cagliari in materia di procreazione medicalmente assistita, sulla questione delicatissima della diagnosi reimpianto).



Questo rivela una visione appunto paternalistica e antidemocratica dei processi di produzione normativa, del tutto paradossale in chi si ritiene invece per definizione aperto alle nuove istanze provenienti dalla società e dal senso comune. Inoltre, rivela una certa disattenzione o un certo disprezzo per i caratteri tipici della legge, come norma in grado di incorporare soluzioni dotate di legittimazione democratica, frutto di una discussione approfondita in Parlamento tra le diverse idee, punto di equilibrio fra opzioni anche lontane, e comunque fattore di integrazione sociale. Laddove soluzioni giudiziarie ardite e innovative sono, come nel nostro caso, elementi di divisione e frattura culturale drammatica.

Per questo penso che una legge ci voglia: non perché da essa si debbano attendere le risposte ultime sulla vita e sulla morte, ma perché non si può lasciare del tutto in mano alla giurisdizione quelle risposte. Comprendo bene l’ottica liberale di chi afferma che lo Stato deve fermarsi “un attimo prima” delle questioni del fine vita. Ma il fatto è che c’è già chi, dotato di autorità pubblica, non si è affatto fermato e ha dettato le proprie scelte.

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