Trovatemi uno che dica: a me Franceschini è simpatico. Trovatemelo, per favore. Non che sia antipatico. Semplicemente, Dario Franceschini è uno sfigato: con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così. Ecco. Lo chiamavano il vicedisastro. Con buone ragioni. Veltroni è stato il punto, il momento, il capitolo, il vertice del disastro, della maledizione Pd, sommando in sé la doppia sconfitta alle politiche contro Berlusconi e alle amministrative romane contro Alemanno. Un uno due micidiale, per ko. Franceschini era il mister, il secondo, all’angolo del ring, gli soffiava all’orecchio: no problem, vai forte, ma non abbassare la guardia, tieni buono Di Pietro, odia il Cav. Fatto sta che, dopo l’ultimo jab di Cappellaci (di Cappellacci!), il secondo buttato fuori è rientrato, e Franceschini o Franceschinello, come l’aveva appellato “il Riformista”, ha continuato il match contro l’odiato Cavaliere. Non per vincerlo, figuriamoci – come lui stesso ha lasciato intendere – ma per limitare i danni, per non finire al tappeto, perdere magari sì, ma ai punti.
Primum vivere, insomma. Franceschini è stato messo lì, dopo la fuga di Veltroni, da una nomenklatura che da un oltre un decennio si scambia le proprie figurine, cambiando il nome del partito per non cambiare se stessa. Il tirare a campare che per l’andreottismo aveva una vaga giustificazione nella vischiosità del sistema – reso ancor più instabile dalla conventio ad autoexcludendum del Pci – per i vari D’Alema, Fassino, Veltroni coi corrispettivi ex Dc Marini, Prodi, Castagnetti e infine, Franceschini, è assurto a filosofia di vita e di pensiero, della prassi e del dipietrismo come ultima risorsa.
Può darsi che Franceschini limiti le perdite, compito peraltro arduo. Può anche darsi che resista, anche dopo le Europee, il pupillo di Benigno Zaccagnini, di quel mediocre e pavido segretario della Dc che doveva tutto ma proprio tutto ad Aldo Moro e lo lasciò morire ucciso dalle Br, in ossequio al fronte della fermezza (Berlinguer e Scalfari). Può darsi, ma non ci crediamo. Tutto può accadere, fuorché prenda l’avvio con Franceschini una diversa e nuova epoca, un moderno, interessante e credibile Pd. Un segretario, ancorché tappabuchi come lui, e pure a termine – ma sarà vero? – contiene nel suo patrimonio genetico, già in sé e per sé giustizialista e populista, una cellula che impedisce qualsiasi rinnovamento e blocca ogni strada riformista, sia di stampo cattolico che, soprattutto, socialdemocratico.
Franceschini discende dai lombi ideologici di quel Dossetti il cui integralismo dottrinale respingeva lo sturzismo liberale intrecciandosi con l’aspirazione ad un sovietismo pauperistico ancor più radicale del togliattismo, con le sue intriganti doppiezze. A ben vedere, il Pd altro non è che la realizzazione del sogno dossettiano: l’unificazione tra Ds e Margherita, sacrificando ogni ragione ideale e teorica che si richiami al liberalsocialsmo, una sommatoria più che una sintesi. Tenuto insieme dal collante antiberlusconiano, dalle sparate demagogiche coi penosi giuramenti sulla Costituzione, dalle ambiguità sui diritti civili. Ai vertici di un Pd privo di identità e orfano di leadership forti e condivise, hanno collocato un volonteroso Dario Franceschini. Primum vivere o liquidatore?