La politica politicante, nei momenti che non sono assorbiti dai recenti tragici eventi, trova in questi giorni un tema molto caldo nel referendum elettorale.

La posta in gioco è molto alta. A oggi alle elezioni politiche i partiti si raggruppano in coalizioni (in quelle di un anno fa: PdL con Lega, Pd con Idv), e la coalizione che prende il maggior numero di voti a livello nazionale prende la maggioranza assoluta della Camera. Per il Senato la questione è un po’ più cervellotica. I conti si fanno a livello regionale, per cui in ogni regione la coalizione con più voti ottiene il 53% dei seggi assegnati alla regione stessa.



Uno dei tanti problemi di questa legge è che se il sistema politico è particolarmente frammentato, c’è il rischio che la coalizione con più voti magari abbia avuto percentuali non altissime, magari intorno al 30%, per poi ottenere il 53% dei seggi. Non il massimo della democraticità: metà dei seggi, con solo un terzo dei voti.



Il referendum elimina le coalizioni; in questo modo il partito che prende più voti a livello nazionale avrà la maggioranza dei seggi sia alla Camera che al Senato. Ovviamente il rischio che il partito più votato a livello nazionale ottenga la maggioranza a fronte di un numero di voti non enorme è ancora maggiore. Questo sistema porterebbe a un bi-partitismo che poco sembra sposarsi con la storia e la cultura politica italiane, così eterogenee a livello territoriale e ideologico. Inoltre le soglie di sbarramento diventeranno un ragionevole 4% alla Camera, e un incredibile 8% al Senato, che probabilmente solo Pd e PdL riuscirebbero a superare.



Come disinnescare quindi questa “bomba ad orologeria”? La risposta è nel quorum. Il referendum è valido solo se almeno il 50% dei votanti vanno a votare, e appare improbabile che gli elettori italiani siano particolarmente dell’umore di esprimere la loro opinione su astrusi tecnicismi elettorali. Storicamente nessun referendum degli ultimi quindici anni ha ottenuto il quorum. Ci si è sempre fermati intorno al 30% al massimo. Anche il referendum sulla fecodanzione assistita, con la massiccia campagna mediatica collegata, si è fermato a un 25% di affluenza.

Storicamente, inoltre, nessun referendum si è tenuto in contemporanea con altre elezioni amministrative o politiche. A essere ingenui, una buona giustificazione è di evitare che un quesito “tecnico” e specifico venga sporcato e condizionato da questioni più prettamente di politica “partitica”, sia essa locale o nazionale. Se il referendum è di interesse nazionale, si può pensare, deve essere in grado di stare in piedi da solo e mobilitare una sufficiente massa di elettori per garantirne la riuscita.

Con la scusa più o meno pelosa di risparmiare soldi, si è invece proposto di accorpare referendum, europee e primo turno delle provinciali e votare tutto insieme il 7 giugno. Questo ovviamente provocherebbe l’automatico raggiungimento del quorum. Alle scorse europee l’affluenza è stata di poco inferiore al 70%, e solo un piccolissimo numero di elettori particolarmente motivati si sentirebbero di andare al seggio e rifiutarsi di ritirare la scheda referendaria.

La seconda ipotesi è di accorpare il referendum ai ballottaggi delle provinciali. Questa ipotesi, se il nostro fine è di disinnescare la bomba referendaria, sembra una buona ipotesi. Basandoci sui dati delle elezioni provinciali del 2004, solo un piccolo numero di province andarono a ballottaggio, per un totale di 12 milioni di elettori, circa un quarto del totale degli elettori italiani. Il quadro politico negli ultimi anni si è ulteriormente semplificato, per cui possiamo anche immaginare che un minor numero di province andrà al ballottaggio. Inoltre ai ballottaggi, specialmente se sono a fine giugno, l’affluenza alle urne che ci si può aspettare è certamente bassa. Nel 2004 si era fermata al 55%.

Questo vuol dire che in tutti i luoghi d’Italia dove non si è impegnati nei ballottaggi (immaginiamo circa tre quarti degli elettori) al fine di raggiungere il quorum, una percentuale di elettori superiore al 45% dovrebbe recarsi alle urne. Questa eventualità sembra abbastanza improbabile. Ci dovrebbe essere una mobilitazione politica e mediatica e di opinione pubblica enorme, in grado di mobilitare la grande maggioranza dei cittadini che solitamente si recano a votare, su materie astruse come le regole elettorali, nel periodo estivo quando l’anno scolastico sarà concluso e il richiamo delle spiagge già forte.

L’ipotesi (direi di scuola) di votare per europee e provinciali il 7 giugno, per il referendum il 14 e per gli eventuali ballottaggi il 21 sembrerebbe piuttosto punitiva e politicamente controproducente: sembrerebbe proprio di assillare gli elettori oltre ogni ragionevolezza.

Rimane invece aperta la questione sul “cui prodest”. A chi gioverebbe questa legge elettorale modificata dal referendum? Probabilmente a Berlusconi, che andrebbe a stra-vincere le successive elezioni senza il fastidio di nessun alleato. Forse anche a certe parti del Pd, che pensano al bi-partitismo come fine.

Di certo il quadro politico che il referendum creerebbe sarebbe a dir poco inquietante: una Camera con il 55% al PdL, e un’affollatissima opposizione con Pd, Udc, Idv ed eventualmente i Comunisti a spartirsi il resto, e un Senato assolutamente imprevedibile.