Tra un “l’avevamo detto” e dichiarazioni di buona volontà, prosegue a Ginevra la conferenza dell’Onu sul razzismo a Ginevra. «Ma di fatto si è conclusa – spiega Angelo Panebianco, editorialista del Corriere – perché quello che dovevamo ascoltare lo abbiamo ascoltato». Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, infatti, ha saputo sfruttare il palco e l’occasione offertagli dalle Nazioni Unite per lanciare una requisitoria contro Israele, accusandolo di razzismo e di essere, nella sostanza, uno stato usurpatore con la complicità dei governi occidentali. Ieri la conferenza ha approvato per acclamazione – in mezzo alle polemiche – la dichiarazione finale, anche se il forum proseguirà fino a venerdì.



Per Ahmadinejad Durban 2 è stata l’occasione per l’ennesimo attacco di stampo razzista e nazionalista allo stato ebraico. Il tutto come da previsioni. È uno smacco per l’Onu? Per i diritti umani, che restano intatti e impregiudicati? O per la politica internazionale?

Quello che è accaduto a Ginevra cataloga subito il vertice come la prosecuzione perfetta di Durban 1. Innanzitutto, l’intervento del presidente iraniano era ampiamente previsto e prevedibile. In vista delle elezioni di giugno Ahmadinejad ha il problema di massimizzare il consenso tra la parte più radicale del paese e di rafforzare la sua posizione nei confronti dell’autorità suprema iraniana. A Ginevra ha avuto a disposizione una tribuna per farlo ed era scontato che avrebbe forzato in quel senso.



C’è poi la contraddizione di una conferenza sul razzismo nella quale viene fatto un attacco razzista e discriminatorio verso uno stato sovrano.

Sul piano dei diritti umani il problema è diverso e più strutturale. Intanto c’è un folto gruppo di paesi arabi e africani che si muovono in modo compatto, riuscendo a condizionare l’Assemblea generale e varie istituzioni dell’Onu. Al punto che il segretario generale delle Nazioni Unite ne è ostaggio. Durban 1 per esempio è stato il prodotto coerente di una complicità dei vertici dell’Onu con questi gruppi e a Ginevra ne abbiamo visto una riedizione plateale. Faccio notare che il segretario generale è stato ben attento a non citare la cristianofobia, della quale sono vittime i cristiani non solo nei paesi indù ma anche nei paesi musulmani, come Nigeria e Pakistan. Vuol dire che questi gruppi hanno “sequestrato” la politica dei diritti civili.



Hanno gioco facile, grazie anche alle evidenti divisioni dell’occidente.

Sì. Diversi paesi occidentali vanno lì a dialogare, nel tentativo di fare un’operazione difensiva, contrastando per esempio gli attacchi contro Israele. Ma hanno già perso, perché la preparazione della conferenze e dei documenti è in mano a quei gruppi – gruppi non solo anti israeliani, ma anche antioccidentali. L’Organizzazione della Conferenza islamica è uno di questi.

Qual è l’esito dell’azione di queste “lobbies dei diritti”?

I diritti umani vengono piegati in senso antioccidentale, come prova il tentativo di ottenere la persecuzione penale per chi critica l’Islam. Non c’è da sorprendersi, perché in questi paesi l’espressione “diritti umani”, che è occidentale, figlia del giusnaturalismo cristiano e del liberalismo occidentale, assume un significato totalmente diverso.

I diritti umani possono ancora far valere un metodo politico oppure anch’esso è coinvolto nelle ambiguità legate alla loro strumentalizzazione?


Qui c’è un problema ancor più di fondo ed è la contraddizione sulla quale si fonda tutto l’ordine post ’45 così come è rappresentato dalle Nazioni Unite. L’Onu intende difendere e promuovere i diritti umani, ma deve fare i conti con la sovranità nazionale, anch’essa naturalmente riconosciuta dall’Onu. E la sovranità dello stato implica il dovere di non intervento nelle vicende interne di un altro stato. Ma che si fa quando uno stato sovrano pratica il genocidio di una minoranza nel proprio territorio? È una contraddizione strutturale. Da questo punto di vista l’intervento in Kosovo, fatto in nome dei diritti umani, è stato la plateale violazione del principio di sovranità e del dovere di non intervento.

Poco fa ha detto che i diritti umani sono frutto ed espressione della cultura occidentale. Allora la coesistenza di culture diverse ha accelerato la “crisi” dei diritti?

Fin quando i diritti umani hanno conservato il significato occidentale, cioè fin quando l’occidente ha mantenuto la propria egemonia politico-culturale la contraddizione non è esplosa in termini così drammatici. Ma ora, con l’occidente in fase di ripiegamento e debole a causa delle sue divisioni interne, la crisi si è puntualmente verificata. E a questo punto i diritti umani acquistano un significato che per la stragrande maggioranza degli occidentali è inaccettabile, perché tra i diritti umani viene ad esserci la difesa della sharia.

Allora la garanzia e la tutela dei diritti umani da parte dell’Onu come l’abbiamo conosciuta fino ad ora, è finita?

Sì. A meno che i paesi occidentali non siano capaci di formare una informale “lega delle democrazie”, coordinandosi di più e meglio per contrastare all’origine, in Assemblea generale, nel cosiddetto Consiglio per i diritti umani, l’altro blocco che si muove unito e compatto. Se ci fosse anche di qua compattezza, si potrebbero trovare mediazioni accettabili anche per l’occidente.

Pare l’opposto del metodo seguito nelle due conferenze di Durban…

Sì, perché il documento di Durban l’hanno fatto quei signori che hanno una certa visione dei diritti umani. Il compromesso deve essere a monte, con una presenza molto più forte e coordinata del mondo occidentale, per impedire che si scriva diritti umani ma si legga una cosa completamente diversa.

Stando a quello che si è visto a Ginevra due approcci sembrano possibili: nel primo si dice che gli interlocutori compromettono il palcoscenico pregiudicando il vertice e quindi non si va. Nel secondo si ritiene che la presenza di un Ahmadinejad non sia una ragione per abbandonare l’unica sede di discussione deputata ad affrontare il problema.

No, mi dispiace, non è così perché la faccenda è compromessa in partenza. Il problema non è soltanto Ahmadinejad, ma gli scroscianti applausi che hanno accompagnato il suo intervento, la commissione preparatoria del vertice presieduta dalla Libia, il precedente di Durban 1. Qualunque conferenza è decisa da chi fa l’agenda, dopodiché i partecipanti giocano nel perimetro stabilito. Il problema è l’agenda, non la conferenza, ed è lì la debolezza occidentale.

La Ue si è presentata divisa a Ginevra. Dovrebbe aver imparato la lezione?

Dovrebbe, ma mi sembra refrattaria ad apprendere dall’esperienza. Sui diritti umani si fa politica, questa è la realtà. Gran Bretagna e Francia erano presenti perché sono ex potenze coloniali con una vecchia influenza e interessi attuali in Medio oriente. La Francia è presente in nome della sua vecchia politica araba, che oggi ha a che fare con le aperture di Sarkozy alla Siria e con atteggiamenti di diffidenza verso gli Usa tipici della tradizione gollista. L’Italia e la Germania hanno potuto recedere perché non hanno un problema pressante di influenza politica. I calcoli nazionali sono inevitabilmente presenti, ma l’Ue in quanto tale no, perché riesce solo a dividersi.