Il Consiglio dei Ministri ha deliberato ieri di proporre come data per il referendum sulla legge elettorale il 14 giugno: è l’ipotesi a legislazione vigente che prevede lo svolgimento del referendum in una data compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. Nello stesso tempo però, in commissione affari costituzionali, è stato approvato, su iniziativa della maggioranza, un disegno di legge che permetterebbe l’abbinamento ai ballottaggi del 21 giugno: tale data è quindi l’ipotesi più probabile in cui si svolgerà il referendum. È una soluzione di compromesso (la chiamata alle urne per i ballottaggi è decisamente più limitata rispetto al voto del 7 giugno) per chiudere la penosa vicenda che è stata montata intorno all’election day.



Questa vicenda è partita da un articolo, molto grezzo, pubblicato su lavoce.info che ha lanciato il caso, gonfiando assurdamente i presunti costi di una consultazione referendaria separata dal voto del 7 giugno. È stato davvero una sorta di sciacallaggio sul terremoto (l’argomento era: accorpando si risparmiano risorse che possono essere destinate a quella causa), mirato in realtà a stravolgere la prassi costituzionale italiana, dove non si è mai verificato che un referendum abrogativo sia stato abbinato a un’altra consultazione elettorale. In tutta la storia della Repubblica, infatti, l’unico caso in cui si è verificato un accorpamento è stato quello del 18/6/89 tra il referendum consultivo sull’integrazione europea e le elezioni europee. Ma – ed è fondamentale rilevarlo – il referendum del 1989 era solo consultivo e non prevedeva, a differenza del referendum abrogativo disciplinato dall’art.75 Cost., un quorum per la sua validità. Nessuno dei circa sessanta referendum abrogativi indetti sino a oggi è mai stato accorpato con un’elezione politica, europea o amministrativa, nonostante in molti casi le consultazioni siano spesso avvenute in tempi assai ravvicinati, come ad esempio nel 2000, durante il governo D’Alema, quando si è votato il 16/4 per le regionali e il 21/5 per sette referendum proposti dai radicali.



Il motivo è chiaro. La disciplina costituzionale del referendum abrogativo consente all’elettore tre possibilità: non solo il voto favorevole o contrario all’abrogazione, ma anche l’astensione, che può essere un vero e proprio rifiuto della questione posta dai promotori. L’art. 75 Cost., infatti, richiede che, affinché il referendum abrogativo sia valido, partecipi la metà più uno degli aventi diritto al voto. In questo modo, i costituenti hanno imposto ai promotori – in fondo dieci cittadini, che hanno raccolto le firme di 500.000 elettori (l’1% dell’elettorato) – di dimostrare che la questione da essi proposta è sentita e accettata dagli elettori almeno come oggetto di confronto. L’astensione è quindi il modo più chiaro per esprimere una specie di voto di sfiducia nei confronti dei promotori del referendum.



L’ipotesti di riunire nell’unica data, assieme alle elezioni per il parlamento europeo e a quelle amministrative, anche la consultazione referendaria sulla legge elettorale era evidentemente funzionale a facilitare, in modo indebito, il raggiungimento del quorum necessario alla validità del referendum. Ma se s’instaurasse una simile prassi di accorpamento, l’istituto del referendum e gli effetti dell’astensione stabiliti dall’art.75 della Cost. risulterebbero stravolti. Che risultato avrebbe avuto il referendum sulla legge 40 (fecondazione assistita) del 13 giugno 2005 se fosse stato abbinato alle regionali del 4 aprile dello stesso anno? Forse il partito dell’astensione non avrebbe vinto. Cercare di incrociare i referendum con elezioni politiche, regionali o amministrative diventerebbe allora in futuro la prassi dei promotori dei referendum per essere più sicuri, in certi casi, del raggiungimento del quorum di validità. Si parla tanto di rispetto della Costituzione, ma un election day al 7 giugno sarebbe stato un grave stravolgimento della prassi costituzionale italiana. I costi del referendum sono quindi da addebitare solo a chi l’ha promosso. Nel merito, è utile precisare che in caso di vittoria dei “si” non verrebbe per nulla cambiato l’aspetto discutibile della legge elettorale attuale che è quello delle liste bloccate, ma ci troveremmo solo con una legge elettorale simile alla famosa legge Acerbo del 1923 o alla legge “truffa” del 1953. Il cuore del referendum, infatti, è che, in caso di vittoria dei “si” il premio di maggioranza non verrebbe più assegnato alla coalizione che ha vinto le elezioni, ma al partito che ha ottenuto la maggioranza relativa. Per assurdo se il partito più votato ottenesse solo il 10% dei voti sarebbe automaticamente portato sopra il 50% e si troverebbe comunque garantita la maggioranza dei seggi parlamentari. Verrebbe quindi introdotto un mostruoso premio di maggioranza, in violazione del principio dell’eguaglianza del voto. Per stare all’esempio, il voto di chi ha scelto il partito vincente verrebbe a pesare circa quattro volte di più di chi ha votato un partito che magari ha raggiunto solo il 9,99%. La Corte costituzionale, peraltro, nell’ordinanza in cui ha dichiarato ammissibile il referendum si è espressamente riservata di giudicare poi la costituzionalità della normativa di risulta in caso di vittoria dei “si”.

Ma anche un altro fattore depone ora contro questo referendum: il sistema bipolare italiano (e non bipartitico come vorrebbero i promotori del referendum) nell’ultimo periodo ha fornito una grande prova di maturità politica, ad esempio, approvando con un largo consenso una riforma epocale come quella del federalismo fiscale. Nella democrazia italiana si sta quindi lentamente superando quel bipolarismo “rusticano”, basato sulla delegittimazione dell’avversario, che aveva caratterizzato i primi anni della Seconda Repubblica. I tempi, rispetto ad allora, sono cambiati, sono già avvenute volontariamente importanti fusioni tra forze politiche diverse, e il bipolarismo attuale si sta dimostrando anche capace di garantire una buona governabilità. Perché quindi uccidere subito questa novità cercando di forzare il sistema dentro la camicia di forza di un bipartitismo di dubbia costituzionalità e contrario a quel corretto pluralismo democratico che è coessenziale alla nostra storia?