Certe scadenze rischiano di essere più che altro appuntamenti ad uso dei giornali; fatto sta che il giro di boa dei “primi cento giorni” è ormai diventato una sorta di vero e proprio esame per ogni nuovo presidente, di qualunque nazione esso sia. Figurarsi poi per uno come Obama, che sul cambiamento e sull’impressione del nuovo ha giocato tutta la sua (pacifica) macchina da guerra elettorale, che lo ha portato alla vittoria. Sta mantenendo la promessa? Sta effettivamente realizzando quel sogno per cui gli americani l’hanno votato?



Ilsussidiario.net ne ha parlato con Mario Calabresi, nuovo direttore del quotidiano La Stampa, che proprio oggi si insedia ufficialmente alla guida del giornale torinese. Già corrispondente da New York per la Repubblica, Calabresi ha conosciuto da vicino e raccontato agli italiani tutti gli avvenimenti e i sentimenti che hanno generato l’ormai noto “cambiamento” nell’ultima tornata elettorale statunitense.



Direttore, in questi primi cento giorni Obama ha puntato quasi tutto sul recupero di immagine a livello mondiale; una cosa di cui gli Usa certamente sentivano un gran bisogno. Ha agito bene, e con iniziative di sostanza, o si è limitato all’effetto “immagine”?

Sicuramente Obama è già riuscito a dimostrare che un altro modo di fare politica estera è possibile anche negli Stati Uniti. Una politica libera da certi schemi ideologici del passato, e più pragmatica. Ma ha già sperimentato anche il fatto che questa strategia non sempre funziona: lo si è visto in parte con Cuba, ma soprattutto lo si è visto chiaramente con l’Iran. Tendere la mano, come ha fatto Obama in alcuni suoi discorsi, e poi trovarsi come risposta ciò che Ahmadinejad ha detto a Ginevra è certamente una cosa che mette molto imbarazzo, non solo Obama, ma tutti gli Stati Uniti. Detto questo, penso però che l’approccio pragmatico del nuovo presidente tutto sommato funzioni. E in fondo una riprova di questo è il fatto che egli sia stato preso a bersaglio di proclami terroristici da parte dei fondamentalisti di Al Qaeda, ai quali invece interessa tenere alta la tensione. Da questo punto di vista possiamo già dire che il pragmatismo paga.



Paga sicuramente nel breve periodo; ma in una prospettiva più lunga, che rischi può comportare il fatto di implicarsi in rapporti con figure politiche ambigue, quando non apertamente negative?

Il discorso sui tempi lunghi è certamente problematico. Ma è stato lui stesso a dirlo, quando ha paragonato la politica estera a un grande transatlantico: basta un piccolissimo movimento del timone per cambiare rotta, ma ci vuole poi molto tempo perché il cambiamento di direzione venga percepito. Quel che è certo, è che dopo anni il punto di approdo è un porto completamente diverso.

Se è quasi unanime una certa impressione positiva sulla politica estera, più problematico è il discorso sulla politica interna di Obama. Che giudizio hanno gli americani di questi primi giorni di politica interna caratterizzata da un forte intervento pubblico, non solo in campo economico?

Innanzitutto dico che secondo me Obama ha fatto di più in politica interna che non in politica estera. Noi europei vediamo più l’aspetto dell’estero; ma gli americani hanno più interesse a vedere come cura gli affari interni. E da questo punto di vista nei primi cento giorni il nuovo presidente ha dato l’impressione di essere capace di dare risposte certe. Prendiamo a mo’ di esempio un episodio recentissimo, che a noi può sembrare di politica estera, ma che per gli americani è un fatto interno: l’ordine dato alla Marina di attaccare i pirati per liberare il capitano americano tenuto prigioniero nelle acque della Somalia. Negli Usa è stata vissuta come la decisione da parte del presidente di andare a liberare un cittadino statunitense. Come dire: quando c’è in ballo la vita di un americano, un vero presidente non esita a usare qualunque mezzo pur di salvargli la vita. Una cosa importantissima in assoluto; ma ancor più lo è per chi fino al giorno prima era considerato troppo debole e attendista, e che improvvisamente dimostra di essere un presidente di carattere.

Veniamo allora al punto che evidentemente catalizza su di sé, in questo momento, l’attenzione di tutti: l’economia.

Questa, inutile dirlo, è la grande questione. Da questo punto di vista Obama ha scommesso tutto su due cose: salvare il sistema bancario e finanziario, sulla strada già iniziata da Bush, e fare un grande investimento di spesa pubblica. Obama, come Paulson e Bush, è convinto che finché il sistema finanziario non si sarà stabilizzato e non ripartirà un sereno mercato del credito, non ci potrà essere una vera ripresa economica. Dall’altra parte, però, pensa anche che per far ripartire occupazione e spesa delle famiglie si debba intervenire con il meccanismo classico della spesa pubblica, finanziando con soldi pubblici il lavoro. Sul fatto che questo funzioni o no, ci sono teorie contrastanti; e dal momento che Obama ci ha messo una quantità di soldi senza precedenti nella storia americana, risulta evidente che è su questo che si gioca tutto. Se la scommessa gli va bene e gli Usa a fine anno o inizio dell’anno prossimo iniziano a ripartire, Obama ha vinto la partita, e ha anche messo una seria ipoteca sulla sua rielezione; se invece questo meccanismo non funziona, e l’America si trova pesantemente indebitata e con un’economia che non riparte, allora questa sarà la sua pietra al collo.

Il cambiamento lo si è visto anche dal punto di vista della comunicazione: meno canali tradizionali, più contatto diretto con la gente, utilizzando gli strumenti più moderni. Che apporto gli ha dato questa spinta comunicativa?

Direi che questi canali stanno funzionando, ma forse un po’ meno di quanto ci si aspettasse. Il problema, cioè, è che ci sono talmente tanti problemi reali, che lo spazio lasciato alla fantasia e alla creatività è ben poco. Se Obama si fosse trovato in una situazione meno difficile, e per così dire più “normale”, avrebbe forse fatto i fuochi d’artificio da questo punto di vista; si è invece trovato in una situazioni in cui ha dovuto fare molte cose pratiche, molti conti. Insomma, molta prosa e poca poesia.

Proviamo in estrema sintesi a ridurre all’essenziale questi fatidici primi cento giorni di Obama: qual è la cosa che gli è riuscita meglio, e quella in cui è andato peggio?

La cosa migliore, soprattutto se vista da un europeo, sono stati i discorsi tenuti a Praga e in Turchia, dove si è permesso di immaginare che ci possa essere un mondo meno conflittuale, più collegiale nelle decisioni, più attento alle differenze. La cosa che gli è riuscita meno bene, strano a dirsi, è un aspetto relativo all’immagine: ha un’eccessiva dipendenza dal teleprompter, dal gobbo. L’effetto è quello di un presidente troppo artificiale, fortemente legato ai discorsi scritti e minuziosamente preparati. Questa è una cosa che finora ha deluso: si è dimostrato assai poco capace di naturale improvvisazione.

Un’ultima domanda direttamente rivolta a lei: oggi si insedia ufficialmente come direttore de La Stampa, dopo anni trascorsi negli Usa come inviato di  Repubblica. Che tesoro le lascia quest’esperienza americana per iniziare la sua nuova avventura professionale?

Quello che mi porto dietro di questi anni, con tutti cambiamenti che sono avvenuti, è che in periodo di crisi – una crisi innanzitutto economica, che investe anche l’Italia; ma anche, per noi giornalisti, una crisi dei giornali, che riguarda entrambe le sponde dell’oceano – ebbene, in un periodo così l’America ha dimostrato una grande capacità di cambiamento. E non mi riferisco solo alle elezioni, bensì a una generale capacità che riguarda tutta la società americana: capacità di essere elastici, di mettersi in discussione, di trovare soluzioni nuove, diverse, originali. È una cosa che io cercherò di portarmi dietro, perché è ciò di cui abbiamo più bisogno in Italia.

(Rossano Salini)