La crisi economica ha messo l’Unione europea a dura prova, mostrando la fragilità del suo ruolo nel quadro del duopolio Usa-Cina e la sua difficoltà ad attuare politiche economiche coordinate, tra alleanze privilegiate e spinte protezionistiche. Sono solo alcuni dei problemi che oggi deve affrontare il governo dell’Unione europea. Il ministro degli Esteri Franco Frattini riconosce le difficoltà ma è ottimista, attacca il modello “intergovernativo” e difende il ruolo dell’Italia.



Durban 2 ha riproposto in maniera chiara un problema ormai cronico della comunità internazionale e delle Nazioni Unite, ossia l’incapacità di trattare dei diritti umani in modo costruttivo evitando vaghe petizioni di principio o, peggio, gravi strumentalizzazioni. Che fare?

I diritti umani sono una materia che può essere facilmente plasmata per finalità politiche. È paradossale, ma proprio quel settore che più dovrebbe ispirarsi a principi fermi ed irrinunciabili diviene spesso terreno di compromessi opachi. Da parte nostra, abbiamo tradizionalmente cercato di seguire una linea in cui il dialogo si concilia con la fermezza su principi e valori. In altri termini, riteniamo che sia necessario tentare di rinvenire un denominatore comune, purché tale ricerca non porti ad un arretramento o un indebolimento sul piano della tutela e della promozione dei diritti umani universalmente riconosciuti ed accettati.



Che è esattamente quello che è accaduto alla Conferenza di riesame di Durban.

Sì. Era un’occasione preziosa per fare un deciso passo avanti, tutti insieme, nella lotta al razzismo; alla fine, invece, ci siamo ritrovati divisi e con un risultato finale – il testo adottato – che è un tentativo di sintesi, fragile e contraddittoria, di punti di vista non conciliabili. È mancato, a mio parere, il coraggio politico di “alzare l’asticella” delle proprie aspettative e di puntare a un risultato alto, anche al costo di provocare, come prima reazione, dissidi e malcontenti. Ma occorre guardare avanti e trarre un insegnamento dai negoziati di Ginevra. La lotta al razzismo, infatti, continua.



È difficile pensare di farlo nei termini che si sono visti. L’Italia può fare qualcosa?

Innanzitutto, puntare a promuovere, insieme agli altri Paesi, iniziative che vadano alla radice dei problemi reali e non cerchino invece di eluderli per servire obiettivi politici di parte e che rispettino i principi codificati nelle Convenzioni internazionali in materia di diritti umani e i valori di ciascuno. Le occasioni, a livello internazionale, non mancheranno. Quello che conta è che vi sia la volontà politica di intraprendere questo percorso. Su questo faremo sentire, come sempre, la nostra voce.

In occasione dell’ultimo G20 lei ha detto che occorre scongiurare un nuovo duopolio Usa-Cina. D’altra parte le economie dei due giganti sono interdipendenti, anche se ci sono fatti nuovi: la Cina ha detto che continuerà a comprare T-bond Usa ma nel frattempo ha proposto una nuova moneta internazionale basata sui diritti speciali di prelievo… Non trova che in questo quadro l’Europa sia sempre più marginalizzata?

Al contrario, è proprio in questo quadro che va riaffermato ancora una volta il ruolo dell’Europa. Senza disconoscere le coraggiose aperture della dirigenza cinese a partire dagli anni ‘70, è da ascrivere, infatti, certamente anche all’Europa (e all’Italia) il merito di aver favorito la progressiva inclusione della Cina nel Club degli “azionisti responsabili” degli equilibri globali. D’altra parte è grazie ad una concreta “condivisione delle responsabilità” che Pechino può coniugare l’affermazione del proprio peso geopolitico globale con il concetto di ”pacifica ascesa”, sul quale ha imperniato la costruzione della propria proiezione internazionale.

Lei sembra fugare i timori di un nuovo imperialismo cinese. Ne è convinto?

Gli esempi di questa “condivisione delle responsabilità” ci sono: l’impegno cinese nella missione di pace in Libano; nella lotta alla pirateria nel Golfo di Aden; nei negoziati a sei per la Corea del Nord. Tra i tanti altri casi che potrei ricordare, l’Italia attribuisce una rilevanza cruciale alla partecipazione della Cina alla Conferenza di Trieste del G8 sull’Afghanistan, in qualità di attore regionale e partner della ricostruzione afgana anche nella dimensione economica e commerciale. L’“engagement” di Pechino sull’Afghanistan in un contesto multilaterale è solo un esempio dell’essenziale contributo che Pechino può continuare ad offrire sulle questioni di rilievo per la pace e la stabilità internazionale. Certo, l’aggancio progressivo della Cina al novero dei cosiddetti “responsible stakeholders”, ed il suo coinvolgimento in comportamenti favorevoli alla stabilità, alla pace e al progresso dell’umanità è una sfida senza dubbio immensa.

…della quale fa parte anche il capitolo dedicato ai diritti umani, non trova?

Certamente. È una sfida che si sviluppa non senza momenti di difficoltà, come, ad esempio, la differente sensibilità in materia di diritti umani e libertà fondamentali. Ma anche su questo punto, una Cina che intende rapportarsi più intensamente e più costruttivamente con gli altri “responsible stakeholders” mondiali, e con l’Unione Europea in particolare, dovrà offrire risposte nuove e coraggiose in linea con gli standard per noi acquisiti.

Tornando al tema di partenza: mentre i vertici si allargano trasformandosi in occasioni poco più che interlocutorie, c’è la sensazione che l’unico “G summit” a contare davvero sia quello tra Pechino e Washington. d’accordo?

È vero, resta forte, anche se sullo sfondo, il rischio che si venga a creare una grande intesa, una sorta di G2, fra Pechino e Washington, con il rischio di relegare in secondo piano tutti gli altri consessi di dialogo, e quindi anche il rapporto Ue-Cina o quelli in ambito G8 allargato. Credo però che questo scenario – talora evocato anche in modo provocatorio da osservatori e commentatori internazionali, oltre che da me – potrà essere scongiurato dall’Europa grazie al suo forte e consolidato dialogo con la Cina. Come? Ma proprio perché non è nemmeno nell’interesse di Pechino di consentire la nascita di un colosso “Chimerica”, che si imponga su tutti gli altri rapporti internazionali.

Lei ha affermato che «La Cina è stata erroneamente percepita fino a un recentissimo passato solo come una grande economia, utile per gli investimenti e grande partner commerciale, ma troppo poco come partner politico». Ma è la Cina e non l’Europa che ha la forza per scegliere il proprio interlocutore. Che spazi d’azione ha il nostro paese?

La ringrazio per questa domanda che mi permette di precisare e di sviluppare, dalla prospettiva italiana, gli elementi ai quali ho appena fatto cenno. Il punto è che la Cina ha già scelto di  essere un nostro interlocutore consapevole e ad ogni livello. Proprio per questo, come ho già avuto modo di ribadire, non si deve fare l’errore di lasciare che le opportunità offerte dalla progressiva articolazione delle relazioni Ue-Cina vengano messe in ombra dalle preoccupazioni per la crescente potenza economica di quest’ultima, od il suo peso demografico, quali unici fattori indicativi di un prossimo dominio cinese del mondo.

Deve ammettere che non mancano però timori in questo senso…

In realtà i rapporti internazionali sono basati anche sulla storia, la cultura, le tradizioni ed i valori, ed in questo senso Italia ed Europa non potranno che continuare a rivestire un ruolo molto rilevante. Sulla base di tali presupposti, l’Italia, con la presidenza del G8, ha quest’anno l’occasione di allargare sempre più verso la Cina le discussioni mirate al governo dei principali problemi globali ed internazionali, come la stabilità nelle aree di crisi, il controllo degli armamenti nucleari e convenzionali, la lotta alla povertà, il contrasto al terrorismo internazionale, lo sviluppo sostenibile, la protezione dell’ambiente, i problemi energetici.

Accanto al duopolio Usa-Cina, la cosiddetta Europa “intergovernativa” – che lei ha definito «un vero pericolo», affermando che dalla crisi si uscirà solo «con più e non con meno Europa» – è apparsa un dato di fatto. Come contenere le spinte di questi “neonazionalismi” e impedire che diventino linea di governo? A scongiurarlo basta la moral suasion europea?

Ma se parliamo di “dati di fatto” è con esempi concreti che voglio rispondere, più che basandomi su un concetto evanescente come quello di moral suasion europea. Partendo dagli aspetti positivi, l’Unione, direttamente o attraverso i suoi Stati membri, ha saputo adottare misure importanti per ripristinare il corretto funzionamento dei mercati finanziari; per rilanciare l’economia reale, approvando in particolare un piano di rilancio per il 2009/2010 stimabile in 400 miliardi di euro (il 3,3% del Pil comunitario); per far fronte alla grave situazione sociale e di disoccupazione; per presentarsi con una posizione coordinata al G20. L’euro si è poi mostrato un importante scudo protettivo, assolvendo una preziosa funzione stabilizzatrice.

E le spinte centrifughe? L’asse franco-tedesco si è confermato una realtà, a discapito di una visione politica più collegiale; il no di Berlino agli aiuti coordinati richiesti dai Paesi dell’est ha fatto scalpore. Per non parlare della tentazione protezionistica.

Certamente, vi sono degli ostacoli. Il più evidente dei limiti emersi nell’azione dell’Europa è il fatto che l’Unione non è attrezzata per adottare politiche economiche anticicliche, che restano di pertinenza degli Stati membri. Il rischio maggiore è proprio la rinascita del protezionismo, che può insidiarsi nell’attuazione dei provvedimenti nazionali di stimolo fiscale. Trattandosi di misure del genere, gli Stati sono infatti implicitamente incoraggiati ad agire a sostegno delle produzioni nazionali. L’Europa deve però resistere a questa tentazione. Le regole del mercato interno, uno dei pilastri della costruzione europea, vanno rispettate anche in una congiuntura così difficile, che non può diventare l’occasione per giustificare distorsioni della concorrenza. La lotta contro questo protezionismo è anche una priorità della presidenza italiana del G8.

Quali sono le misure efficaci e praticabili in grado di scoraggiarlo?

Una riforma del bilancio comunitario, che includa anche la struttura delle spese, le modalità del loro utilizzo, il regime di finanziamento; l’emissione di eurobonds, al fine di reperire maggiori risorse per uscire dalla recessione e finanziare la crescita e gli investimenti; e infine l’affidamento della vigilanza finanziaria alla Bce, partendo dal presupposto che le attività di banche e istituzioni finanziarie superano ormai i confini dei singoli Paesi. Un altro utile contributo sarebbe poi dato dal rafforzamento istituzionale dell’Unione attraverso l’entrata in vigore del trattato di Lisbona. Il modo in cui l’Unione ha reagito alla crisi economica ha mostrato buone ragioni che depongono a suo favore.

Quali, ministro?

Si tratta dell’istituzione di una Presidenza stabile del Consiglio europeo, che offrirebbe invece garanzie migliori – rispetto alle attuali presidenze semestrali – in termini di capacità dell’Unione di conseguire i propri obiettivi e di esercitare la sua leadership politica sulla scena internazionale. Tutte proposte ed ipotesi di lavoro concrete, dunque, per superare, più che meramente contenere, le spinte di questi “neonazionalismi”.

È possibile, per l’Italia, rendere più incisivo il proprio ruolo senza giocarlo in chiave antieuropea o – a sua volta – “intergovernativa”?

Bisogna fare una premessa, per intenderci. È significativo che in assenza del trattato di Lisbona si sia fatto ricorso sul piano istituzionale anche a formule nuove, come il formato utilizzato per il vertice di Parigi sulla crisi economica, che ha riunito per la prima volta i Capi di Stato e di Governo dei 15 Paesi aderenti all’Eurogruppo, assieme al premier britannico, oltre ai vertici della Commissione e la Bce. Ed è comprensibile che nell’attuale scenario di crisi vi sia stata una maggiore evidenza dei governi nazionali in quanto essi restano depositari di legittimità democratica sufficiente a prendere decisioni in breve tempo. In genere, si tende a qualificare tutto ciò come una risorgenza dei meccanismi intergovernativi. Ciò è vero solo in parte. È certamente vero che è attorno all’iniziativa della Presidenza che l’impulso politico decisivo si è coagulato – o non si è coagulato affatto – e che è stata necessaria una forte convergenza di volontà tra un certo numero di Stati membri per varare azioni comuni impegnative.

Proprio in questo contesto non le sembra che il ruolo della Commissione europea sia apparso minore, condizionato non solo dal crescente ruolo dei governi ma anche da quello di co-legislatore del Parlamento?

Sì, ma è pure vero che la Commissione conserva un potere notevole e centrale, sia in termini di iniziativa politica, sia in termini di traduzione gestionale degli input provenienti dal Consiglio europeo. Il trattato di Lisbona migliorerà l’efficienza complessiva del sistema e rappresenterà un punto di equilibrio tra le varie esigenze. Introdurrà nuove figure come il Presidente stabile del Consiglio europeo e l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza che costituiscono un rafforzamento, sotto molti punti di vista, della componente intergovernativa. Ma preserverà anche il ruolo della Commissione quale detentrice esclusiva del potere di iniziativa – che verrà esteso anche allo spazio di libertà, sicurezza e di giustizia – e ne rafforzerà il ruolo di “guardiana dei trattati”.

Spesso però la percezione è quella di una complicazione di organismi in cui non è ben chiaro chi fa che cosa, con il risultato di mostrare una scarsa capacità decisionale coordinata.

Teniamo presente che nella sua configurazione attuale l’architettura europea rappresenta un unicum non riconducibile in maniera univoca a uno degli schemi tradizionali (funzionalismo e/o federalismo versus azione intergovernativa). Attraverso la sua complessa articolazione, essa garantisce anche la necessaria duttilità per far fronte in modo diverso a situazioni diverse, e questo non è necessariamente un male.

Tornando all’Italia?

A proposito dell’incisività dell’Italia in Europa,  mi sembra che la domanda investa anche il tema di del ruolo giocato dal nostro Paese nella Politica Estera di Sicurezza e Difesa. E l’Italia è in prima fila dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo in tutte le iniziative Pesd sia civili che militari. Per la componente militare l’Italia ha appoggiato le proposte di rafforzamento delle capacità di difesa portate avanti dalla presidenza francese dell’Ue. Su questo abbiamo costantemente sottolineato l’importanza di armonizzare la crescita delle risorse destinate alla Pesd con quello che è l’impegno richiesto in ambito Nato. Contrariamente a quello militare, l’ambito civile dell’impegno Ue è un settore relativamente giovane e caratterizzato da una forte componente di sperimentazione. L’Italia ora come negli anni passati ne ha sempre difeso l’importanza e il ruolo strategico, impegnandosi per ottimizzarlo. La necessità di coordinare le componenti civili e militari di un intervento in un paese terzo, tema oggi diffusamente sostenuto a livello internazionale – in primis dalla nuova amministrazione Usa con riferimento all’Afghanistan – fa parte di questo compito.

Lei ha posto in prima fila l’Italia nel favorire il processo di allargamento ai paesi dei Balcani occidentali. Come e perché questa scelta non rischia di aumentare invece l’instabilità e l’insicurezza sociale e politica, in una fase in cui l’Europa dell’est ha dato molteplici segni di debolezza?

Direi il contrario. Le tensioni sociali, politiche e anche istituzionali sono innegabili, ma si tratta, come dire, di un “costo-opportunità” da affrontare in nome di un superiore e più ambizioso obiettivo di completamento dell’architettura di pace e sicurezza del continente. Il punto, quanto ai Paesi dei Balcani occidentali, è che riteniamo che la loro integrazione nelle istituzioni euro-atlantiche stia andando troppo a rilento. A dieci anni di distanza dalla guerra in Kosovo, deve proseguire per tali Paesi, ed essere completato, un percorso di riforma. Ma è anche vero che l’Ue deve saper dimostrare che la prospettiva di una loro integrazione nell’Unione è concreta e realistica. I governi democratici dei Balcani occidentali vanno sostenuti con misure visibili, in modo da preservare la fiducia di quelle opinioni pubbliche nei confronti dell’Europa.

Sulla base di queste premesse, che cosa ha in mente di fare?

Ho presentato, in occasione dell’ultimo Vertice informale Ue-Usa, un piano d’azione, che delinea un possibile percorso operativo per i prossimi dodici mesi. Si tratta di una proposta di tabella di marcia in 8 punti diretta a rendere più concreta la prospettiva europea per quei paesi. Ne fanno parte per esempio iniziative di liberalizzazione dei visti, segnali di incoraggiamento ai paesi più virtuosi e meritevoli dello status di candidato; azioni di impulso per superare gli stalli negoziali. L’Italia vuole essere al centro del rilancio politico del «progetto Europa» per i Balcani. In assenza di questo ambizioso progetto politico, che noi abbiamo sempre favorito, i “segni di debolezza” di cui lei parla a proposito dell’attuale situazione dei Paesi dell’Europa orientale sarebbero stati ancora più numerosi e preoccupanti.

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