Per capire la portata delle indicazioni contenute nel Libro Bianco sul futuro del modello sociale (“La vita buona della società attiva”), approvato dal consiglio dei Ministri lo scorso 6 maggio, occorre tornare a ciò che suggeriva quattro secoli fa Althusio (Politica, 1603): “Le famiglie, le città e le provincie sono esistite prima degli Stati, i quali da esse sono derivati. La proprietà del regno appartiene al popolo, mentre al re spetta l’amministrazione di esso”.



Ancora oggi l’Italia è disseminata di realtà “di popolo”, come fondazioni, opere di carità, case di cura e assistenza, capaci di rispondere “dal basso” ai bisogni della gente, molto spesso di gran lunga preesistenti al costituirsi dello Stato. Purtroppo uno statalismo duro a morire continua a ritenere che l’unico modo per attuare uguaglianza di opportunità e promozione delle fasce deboli sia una forma di welfare state assistenzialistico. E molti pensano che l’unica forma alternativa sia un mercato libero e senza regole esteso al mondo del welfare.



In questo senso il Libro Bianco mette in guardia dal rischio di vedere solo due alternative e antitetiche visioni: o ridurre l’intervento pubblico dello Stato, creando in questo modo nuove aree di povertà; o cercare di mantenere comunque in vita il tradizionale modello di welfare state, chiudendo gli occhi di fronte alla sua inefficacia e insostenibilità finanziaria. Il vero punto di snodo sta, invece, nell’idea antica eppure così moderna, che riconosce come primo fattore di costruzione sociale la responsabilità umana, coinvolta in un ambiente. Si tratta di una prospettiva che parte da un punto di vista positivo e non negativo, non definito innanzitutto dal sospetto circa l’egoismo umano, ma piuttosto dalla valorizzazione della sua natura più profonda, che è tensione costruttiva.



Nella prefazione del Libro Bianco, il ministro Sacconi parla di “un Welfare delle opportunità e delle responsabilità, che si rivolge alla persona nella sua integralità […]. Un Welfare che […] sa stimolare comportamenti e stili di vita responsabili e, per questo, utili a sé e agli altri. Un modello sociale così definito si realizza non solo attraverso le funzioni pubbliche, ma anche riconoscendo, in sussidiarietà, il valore della famiglia, della impresa profittevole e non, come di tutti i corpi intermedi che concorrono a fare comunità”.

Contrapponendosi idealmente alla visione negativa di Hobbes, che interpretava lo Stato come luogo privilegiato della moralità (pubblica), contrapposta all’immoralità privata, la sussidiarietà suggerisce di vedere, ascoltare, valorizzare ciò che esiste originariamente e che liberamente si sviluppa come risposta “dal basso” ai bisogni dei singoli e della collettività.

Solo alcune regioni, nel nostro Paese, si sono dimostrate capaci di uscire da quella mortale antinomia, sviluppando forme sussidiarie e innovative di intervento sociale. Si pensi ai sistemi integrati pubblico-privato nella sanità, all’introduzione nel sistema dei voucher che hanno messo al centro la libertà di scelta dell’utente (in settori che vanno dall’assistenza all’istruzione), allo sviluppo di politiche fondate sulla promozione della famiglia.

Mancava e manca un intervento a livello nazionale che valorizzi queste novità, finora solo regionali, al di là del diverso colore dei governi succedutisi negli ultimi anni.

L’evoluzione necessaria del modello di welfare non può che avvenire attraverso la valorizzazione della straordinaria risorsa che è il protagonismo sociale. Per questo è importante che i principi enunciati nel Libro Bianco vengano messi in pratica.

(Pubblicato su Il Riformista del 16 Maggio 2009)