«Il Parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso»: con queste parole il presidente della Camera Gianfranco Fini ha gettato il sasso nello stagno del dibattito sul tema della laicità. Fini non è nuovo a uscite di questo genere, nell’ultimo periodo; ma il richiamo questa volta al concetto stesso di «precetto religioso», quasi ci fosse un’imposizione dall’esterno, ha richiamato più di altre volte l’attenzione, e la reazione, dei cattolici del centrodestra. Tra questi, il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi, che in questa intervista a Ilsussidiario.net spiega nel dettaglio le ragioni delle proprie perplessità di fronte alle parole di Fini.
Onorevole Lupi, perché il richiamo del presidente Fini non è secondo lei in linea, come ha avuto modo di dire in questi giorni, con una corretta idea di laicità?
Perché la laicità è l’esaltazione della ragione e della libertà dell’uomo, e come tale non può mai, per sua natura, essere messa in contrapposizione con ciò che la ragione e la libertà dell’uomo trova come risposta alle proprie domande sul senso e il significato della realtà. Gli ideali e i valori che conseguono da questa scoperta, dal riconoscimento di un avvenimento che può rispondere alle proprie domande, non è in contraddizione con la ragione, ma è l’esplicitazione della ragione stessa.
E Fini, con le sue affermazioni, secondo lei nega questo?
In realtà il presidente Fini, in altre occasioni, ha richiamato spesso il concetto di laicità positiva, concetto chiarito e difeso in più occasioni anche dal presidente francese Nicolas Sarkozy: la laicità positiva è esattamente quella posizione che riconosce, appunto, positivo il contributo che qualunque uomo dà alla costruzione del bene comune. E in tal senso riconosce anche l’importanza fondamentale che la stessa esperienza della Chiesa dà a questa costruzione.
Al di là delle opinioni di ciascuno, qual è il rischio per tutti, per il dibattito pubblico, di una laicità “non positiva”?
C’è il rischio di una deriva pericolosa, se non si chiariscono bene i termini della questione. E personalmente non credo che il presidente Fini voglia arrivare ad una posizione e a un’interpretazione della laicità in questo senso. Mi riferisco al fatto che negli anni passati, da parte di una certa cultura egemone, c’è stato il tentativo di ridurre l’esperienza della fede a un semplice intimismo, escluso da ogni tipo di capacità di giudico della realtà e di contributo pubblico al bene comune. Di conseguenza, in base a questa idea, coloro che vivono l’esperienza della fede dovrebbero essere ridotti a una minoranza esclusa dalla società. Quasi che tutte le posizioni avessero una dignità, escluse quelle che partono da un’esperienza e da una certezza. Questo non è accettabile: come la posizione di dubbio e di domanda, ad esempio espressa da Fini, è una posizione con cui confrontarsi, allo stesso modo all’esperienza di certezza portata dai cristiani deve essere data pari dignità, umana e culturale.
Lei ha anche richiamato l’importanza dello spirito della Costituzione, come vera sintesi tra esperienze e storie diverse: quello spirito è ormai lontano da noi, o può invece oggi essere riproposto e riattualizzato?
Lo spirito della Costituzione deve assolutamente essere riproposto e riattualizzato, perché è lo spirito che ha fatto grande il nostro Paese. Consiste nel riconoscere che ognuno di noi, da qualunque storia provenga, si sente investito da un medesimo compito, nell’impegno politico, istituzionale, sociale e civile: costruire il bene comune. Gli articoli della Costituzione, proprio per questo, non si limitano alla delineazione di alcune norme – numero di parlamentari, tipologie degli organi di governo e di garanzia ecc. – ma partono dai cosiddetti principi fondamentali, che sono appunto il frutto dell’incontro e del riconoscimento reciproco tra le diverse posizioni: la libertà dell’uomo, il lavoro, la famiglia, la responsabilità comune. Sono questi i punti su cui le varie esperienze di questo Paese, pur dividendosi su altre cose, non potevano che fare un percorso comune. Questo è lo stesso spirito che ancora oggi serve, e al quale no possiamo rinunciare.
Cosa bisogna eliminare dal dibattito e da certe prese di posizione, per poter far riemergere questo spirito cui ora lei accennava?
Quello che bisogna eliminare da certe prese di posizione, che altrimenti renderebbero impossibile l’esercizio della democrazia e la stessa attività parlamentare, è il pregiudizio: non è accettabile che si assuma come base del proprio discorso il pregiudizio nei confronti della posizione dell’altro. L’altro, al contrario, deve essere un arricchimento per me, deve rappresentare un’esperienza a cui devo guardare e da cui devo farmi interrogare. Questo era appunto lo spirito che animava i padri costituenti; e il venir meno da questo spirito è esattamente il rischio che vedo in certe posizioni, che spero il presidente Fini non voglia fare proprie.
Alla luce di quanto detto, ritiene che sia necessario un passo indietro da parte del presidente Fini rispetto alle sue recenti dichiarazioni?
Io dico che l’unica cosa di cui c’è veramente bisogno è fare chiarezza sul punto essenziale, cioè sulla necessità di eliminare qualunque pregiudizio dal dibattito pubblico: se si toglie questo, allora tutto è un arricchimento. C’è il parlamento, che è il luogo della mediazione, in cui a maggioranza si fanno le leggi; se una volta fatta la legge, chi non la condivide dice che è una legge “etica”, allora scadiamo nel pregiudizio. È il modo per eliminare le ragioni dell’altro, riducendole rispetto al loro valore autentico, di ragione e libertà.