In tempo di campagna elettorale il sondaggista è visto, soprattutto da parte dei politici interessati, come una sorta di divinità. Tutti cercano di captare dalla sua bocca quella verità quasi rivelata, che possa dare sostegno e forza alla propria campagna, in marcia verso l’agognata vittoria finale.

Ma Nicola Piepoli, fondatore e presidente del famosissimo Istituto di sondaggi che porta il suo nome, non sembra propenso a farsi trascinare dai balletti e dalle ipotesi di sconvolgimenti, che qualcuno in questi giorni sembra paventare: quello che accadrà il 6-7 giugno, dice, lo sapevamo già a gennaio, e da allora poco o nulla è cambiato.



Piepoli, partiamo da un dato di cui si parla da giorni, in seguito a un sondaggio de Il Sole 24 Ore: lo spostamento dell’elettorato operaio verso destra. È così?

Gli spostamenti ci sono, ma in termini assoluti sono a mio avviso del tutto marginali. Dando uno sguardo generale ai partiti nelle varie situazioni a livello regionale, notiamo che il Pd rimane forte nelle zone tradizionalmente operaie; certo, in generale c’è qualcuno che è uscito dal Pd ed è andato verso la Lega, ma bisogna anche vedere quanti della Lega sono andati verso il Pd. Bisogna guardare con attenzione allo scambio di voti tra un partito e l’altro. I partiti territoriali e i partiti virtuali si confrontano soprattutto sul terreno, nelle singole zone e nella provenienza dei voti.



Cosa intende con l’espressione “partiti virtuali”?

Partiti creati non sul territorio ma sull’immagine. Il Pd, ad esempio, il partito creato da Veltroni, è un partito molto virtuale. Tanto virtuale che ha perso le elezioni, quando pensava di vincerle. Se un politico pensa di poter arrivare al 40% e vincere le elezioni, e invece si ferma al 30, perdendole, significa semplicemente che ragiona in termini virtuali, senza conoscere la realtà del territorio.

Guardiamo il centrodestra: si parla molto del rapporto tra Pdl e Lega, e soprattutto, come analizzava ieri Libero, si nota il fatto che il Pdl in realtà è più il partito del Sud che il partito del Nord.



Non c’è da stupirsi. La Lega è un partito che ha tra il 15 e il 35% nei collegi 1 e 2, Nord-Ovest e Nord-Est; il Pdl ha come punto di riferimento, andando vicino al 50%, il Sud e le isole. I due partiti si bilanciano: messi insieme hanno circa il 50% del mercato elettorale nazionale. D’altronde, se un partito è forte in una zona, non lo può essere altrettanto anche l’altro, perché c’è un limite al concetto di centrodestra come c’è un limite al concetto di centrosinistra, all’interno dei propri bacini elettorali.

Niente conflittualità, quindi?

No, anche perché la Lega, anche dove ha il proprio bacino di voti, resta comunque un partito minoritario. Nella zona di maggiore espansione, che è il Nord-Est, arriva al 25%, il che significa non essere maggioritari, ma minoritari. Quindi è e rimane semplicemente un grande partito territoriale, legato a determinati archetipi e alla psicologia del Nord.

Le prossime elezioni si distinguono dalle politiche, essendo europee e, in parte, amministrative. Cosa implica questa diversità? Può portare a una maggiore affermazione dei partiti minori?

Se prendiamo le due aggregazioni Pdl-Lega e Pd-Idv abbiamo il 50% da una parte e il 36% dall’altra. In mezzo ci sono gli altri che fanno il 14%: sono solo bruscolini, per di più divisi fra tanti famelici animali. Uno di questi è il più grande, perché è il più moderato, e quindi attira, in quell’area e forse un po’ altrove, qualche voto in più; gli altri, invece, sono piccoli perché sono estremisti. E gli estremisti sono sempre marginali, e tali restano.

E per quanto riguarda il travaso di voti all’interno delle coalizioni?

Lega e Idv sono piccoli rispetto ai loro colleghi, ed è chiaro che devono farsi spazio. Lo spazio come lo si trova? Naturalmente, aggredendo: ma chi? Prima il nemico o l’amico? Non lo so, questo  bisogna chiederlo a loro.

E lei, che risposta si dà?

Posso provare a dare una risposta pensando soprattutto all’Idv. È un partito che ha attratto molto la mia fantasia, per tanti motivi: perché Di Pietro è un galantuomo, perché negli anni Novanta è stato un difensore della giustizia, uno di coloro che hanno costruito la Seconda Repubblica, e anche perché all’epoca era un moderato. Io sono un moderato, non sono mai andato sulle barricate; ed essere moderato non significa essere “regressista”, ma significa rispettare le leggi e pensare che sia giusto farlo. Ora invece Di Pietro è cambiato, e va sulle barricate; quindi un elettore, preso da un momento “estremistico”, può dire: «ha ragione Di Pietro!». Ma questo dura lo spazio di un mattino: quello stesso elettore, quando andrà a votare, trasforma la propria intenzione di voto in un voto moderato. Magari per un partito simile, ma non aggressivo. L’aggressivo, alle fine, aggredisce se stesso.

Quindi le intenzioni di voto che vengono espresse in questi giorni devono essere ridimensionate?

Quello che posso dire è che non credo molto a chi ora si dichiara per Di Pietro, e immagino che al momento del voto possa ritirare la mano. Non tutti, naturalmente, ma per un 5-10% di questi può succedere. È un po’ quello che accadeva, in un’epoca diversa, con le intenzioni di voto per il Msi, che venivano sempre ridimensionate al momento del voto, facendolo rimanere sempre ancorato al 6%, senza mai passare all’8 o al 10%. Ripeto: il partito estremista o aggressivo alla fine aggredisce se stesso. È come un boomerang. Anche se, naturalmente, posso sempre essere smentito.

Un ultimo sguardo alle vicende che riguardano il premier: prima i casi personali (il divorzio e il “tormentone” Noemi), poi la vicenda giudiziaria della sentenza Mills. Come influiranno questi fatti sul voto di giugno?

Non vedo incidenze a breve termine: il 6-7 giugno è una data troppo vicina. Mi spiego con un’immagine: l’Italia è come se fosse un cargo, una grandissima nave-cisterna che porta centinaia di migliaia di tonnellate di carburante in mezzo all’oceano. Una nave così per virare anche solo di 5 o 6 gradi rispetto alla propria traiettoria ha bisogno di molte miglia. Così l’Italia, per virare in termini di voto, ha bisogno di molti mesi. Quindi – come dissi a Guido Podestà cinque mesi in una conferenza pubblica – queste elezioni saranno le elezioni più noiose della mia vita: i risultati li sapevamo già cinque mesi fa. Le cose che diciamo adesso sulle intenzioni di voto sono le stesse di gennaio, e i cambiamenti sono stati infinitesimi. E tali resteranno.