Siamo nel pieno della campagna elettorale per le prossime elezioni europee, ma pochi cittadini probabilmente sanno per che cosa vanno a votare, e tuttora vedono le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo come qualcosa di lontano e complicato. «Purtroppo – dice Antonio Padoa Schioppa, docente di Storia del diritto nell’Università di Milano – le elezioni europee diventano test utilizzati dai partiti per misurare i loro reciproci rapporti di forza a livello nazionale». Ma anche le istituzioni europee non sono immuni da precise “responsabilità”: «manca la codecisione del Parlamento su tutte le materie di competenza dell’Unione, e il Parlamento ha insufficienti poteri di bilancio. Eleggiamo dei parlamentari privi di un potere fondamentale di un organo rappresentativo».
Professore, le elezioni europee sono alle porte, ma per una serie di coincidenze elettorali assomigliano molto di più ad un voto amministrativo, non trova?
Le elezioni europee non sono e non devono essere elezioni amministrative, ma elezioni politiche, anche se coincidono in parte con una serie di elezioni locali. Sono però – e debbono essere – elezioni politiche relative all’Europa e alle scelte fondamentali per l’Europa, non surrogati di elezioni politiche nazionali. Invece, purtroppo, in questa campagna elettorale come in altre precedenti, le elezioni europee diventano dei test utilizzati dai partiti per misurare i loro reciproci rapporti di forza a livello nazionale. E la riprova è che nessuno sta parlando di quello che vorrà fare quando sarà a Strasburgo.
Può indicare qualche esempio di scelte che dovrebbero venire discusse dai candidati al Parlamento di Strasburgo?
Come esercitare i poteri del Parlamento, come decidere sulle risorse per investimenti a livello europeo, come posizionarsi rispetto al potere di veto del Consiglio dei ministri, quali scelte fare al livello europeo in tema di sicurezza, ambiente, energia, immigrazione? Su queste e altre questioni cruciali il Parlamento europeo, che rappresenta tutti i cittadini europei ed è il solo a farlo, deve pronunciarsi con chiarezza. Una campagna elettorale serve appunto per rendere chiare scelte di questa natura all’elettore. Invece le questioni chiave vengono eluse, non vengono discusse.
Qual è a suo avviso la ragione di questo deficit di dibattito, che è anche un deficit di democrazia?
Sta nel fatto che le istituzioni europee – Parlamento, Commissione e Consiglio dei ministri – non hanno ancora raggiunto un assetto istituzionale corretto. Nelle elezioni nazionali subito dopo i risultati sappiamo chi avremo come primo ministro e quale programma verrà attuato. Invece in Europa la Commissione, che è l’emblema del governo europeo, è proposta dal Consiglio e votata dal Parlamento, senza il voto positivo del Parlamento non può formarsi e se c’è la censura del Parlamento si deve dimettere; eppure i partiti europei prima delle elezioni non dichiarano agli elettori quali candidati alla Commissione intendano sostenere e quali programmi di governo per l’Europa intendano promuovere.
È un discorso che non riguarda solo le istituzioni ma anche i partiti?
Sì. I partiti europei purtroppo non hanno ancora applicato alle elezioni europee il meccanismo democratico applicato nelle elezioni nazionali, indicando un proprio candidato alla Commissione. I popolari per esempio hanno ricandidato Barroso, ma i socialisti non hanno ancora contrapposto un loro candidato e i liberali nemmeno. Se lo facessero, i cittadini andrebbero a votare non solo per eleggere dei parlamentari ma per decidere tra candidati e tra programmi di governo alternativi, come si deve fare in democrazia.
La disaffezione dell’elettorato investe naturalmente la posta in gioco: quanto conterà l’Europa?, viene da chiedersi. Ma pochi, probabilmente, sanno rispondere a questa domanda…
I cittadini non sanno che per la maggior parte le decisioni di politica economica non le compiono più i governi e i parlamenti nazionali, ma l’Unione europea perché non sono altro che l’applicazione di regolamenti e di direttive comunitarie. Il Parlamento europeo ha molti più poteri di quello che si crede, ma il cittadino non lo sa, perché i partiti non glielo fanno capire.
Cosa manca allora nel meccanismo istituzionale per essere democratico e virtuoso? Cosa manca all’Europa oggi?
A livello di Parlamento europeo mancano due cose. Innanzitutto la codecisione su tutte le materie di competenza dell’Unione. Attualmente nelle materie più importanti come la fiscalità, la politica dell’ambiente, la politica sociale, la politica estera, la difesa il Parlamento non ha la codecisione; è solo il Consiglio dei ministri che decide e per di più all’unanimità, con il potere di veto: basta che un governo sia contrario e non si fa nulla.
In secondo luogo il Parlamento ha insufficienti poteri di bilancio. E questo è molto grave, se si pensa che storicamente i parlamenti sono nati per controllare l’imposizione delle tasse da parte dei sovrani. Ebbene, il Parlamento Ue non ha potere fiscale, non può decidere un’imposta. Eleggiamo dei parlamentari privi di un potere fondamentale di un organo rappresentativo.
L’idea politica di Europa appare ancora stretta nella “tenaglia” di uno stato concepito come lo era fino al secolo scorso, e di una forma istituzionale più ampia, di tipo federale. Che cos’è da questo punto di vista il processo di costruzione europea?
Il progetto europeo è nato fin dall’origine, cioè fin da Jean Monnet e da Altiero Spinelli, come il progetto di una futura federazione, un po’ come sono ora gli Stati Uniti o la Svizzera. Questo era il disegno di chi ha voluto l’integrazione economica, ma l’integrazione politica resta da fare. Nel ritardo di questa costruzione pesano i malfunzionamenti istituzionali di cui ho parlato. Cosa accadrebbe in un qualsiasi organismo, dal governo nazionale alla semplice assemblea di condominio, se non si potesse decidere se non quando tutti sono d’accordo? In Europa siamo fermi esattamente a questo. Beninteso, la federazione europea della quale è auspicabile il completamento – perché in parte essa esiste già, là dove opera la codecisione dove si decide a maggioranza – non sarebbe una fotocopia di altre federazioni oggi esistenti nel mondo.
A che cosa dovrebbe assomigliare?
Sarà un modello altamente nuovo e originale, perché è la prima volta che un insieme di stati, che per secoli si sono combattuti sanguinosamente, stanno integrandosi pacificamente. È un fatto storico di enorme importanza. Per di più l’Ue potrà dare, e in parte già lo dà, un grande contributo al superamento delle politiche dei blocchi contrapposti, favorendo la crescita dell’Onu, la cooperazione internazionale, gli strumenti di pace attiva, la politica per l’ambiente a livello planetario, o lo sviluppo dei paesi poveri del pianeta. Il mondo di domani ha bisogno di un’Europa con una voce sola, vaccinata a proprie spese dai rischi terribili del nazionalismo.
Come spiega che a questo ancora non si sia giunti?
Perché i governi nazionali, tutti o quasi, hanno l’idea sbagliata che mantenendo il potere di veto difendono l’interesse nazionale. Riescono a paralizzare, ma non a costruire, perché per una volta che blocchi gli altri, dieci volte gli altri bloccano te. È l’impasse più grave. Il Parlamento non ha i poteri che dovrebbe, e il Consiglio dei ministri si paralizza da solo con il potere di veto.
Ma il federalismo europeo è davvero realizzabile?
Che sia realizzabile non ci sono dubbi, se e quando sarà realizzato non possiamo saperlo. Una cosa è certa: l’interesse del cittadino di arrivarvi è enorme. E una consapevolezza di questo nei cittadini europei c’è. Quando si fanno i sondaggi rivolgendo domande ben chiare, ad esempio “volete una difesa comune europea?”, “volete una politica estera europea?”, il livello dei sì tocca da anni il 60-70 per cento. Ma c’è la resistenza dei governi e delle classi politiche nazionali. Il governo tedesco per esempio ultimamente è stato molto timido nella sua risposta alla crisi. La crisi economica è una grande occasione che può permettere di fare un passo in avanti deciso oppure un pericoloso passo indietro nella costruzione europea. Ma ancora non è chiaro quale sarà la risposta dell’Europa.
Abbiamo visto le divisioni dell’Europa: il rifiuto di aiuto economico ai paesi dell’Est, le tentazioni neoprotezioniste, l’Europa intergovernativa. Quale può essere la risposta alla disunità dell’Europa?
Bisogna rendersi conto che certe decisioni, prese a livello nazionale o isolatamente tra i singoli Stati o con un semplice coordinamento di facciata non coprono bisogni che per essere soddisfatti in modo adeguato ed efficiente necessitano di misure assunte a livello europeo: ad esempio in tema di investimenti infrastrutturali, vigilanza bancaria, difesa, immigrazione, energia. Lo chiede il principio di sussidiarietà, che ha due direzioni e non una sola come spesso, sbagliando, si ritiene: la sussidiarietà deve operare, a volta a volta a seconda delle esigenze, verso l’alto oppure verso il basso. Se i bilanci nazionali per la difesa venissero messi in comune, è stato calcolato che l’efficienza a parità di spesa aumenterebbe vistosamente, con enormi economie di scala. E così per l’energia, così per la tutela dell’ambiente, così per gli investimenti su infrastrutture.
Qual è la sua opinione sulla questione del riconoscimento delle radici culturali dell’Europa?
Le radici ebraico-cristiane, al pari di quelle dell’epoca classica, greche e romane, sono di tutta l’Europa e non di una parte. La domanda diventa allora: ma se così è, queste radici occorre metterle nella costituzione? La mia risposta – che so benissimo non essere condivisa da tutti – è che non è necessario, e per due ragioni: perché le radici cristiane nell’ordinamento dell’Europa ci sono già, senza bisogno di nominarle. I principi di solidarietà e di coesione che stanno alla base del mercato unico non sono altro che nomi diversi del concetto di carità e di dignità della persona, che sono principi del cristianesimo. Contano le cose, non le parole, e questi principi culturali fanno parte del codice genetico dell’Unione europea.
Sa bene che in questo modo, come ha mostrato anni fa l’ampio dibattito sulle proposte di Valéry Giscard D’Estaing, il problema non è risolto…
Rispondo che forse è meglio non dirlo – come è meglio non citare altre radici – perché l’Europa ha sviluppato nel tempo un concetto di libertà di opinione, di espressione e di religione per cui tutti si devono riconoscere nell’Europa, il credente e il non credente, e un domani (perché no?) anche il musulmano. Purché tutti rispettino i principi costituzionali inviolabili a tutela dell’individuo e della democrazia che in Europa sono unanimemente riconosciuti. Anche la costituzione italiana – non così quella americana, che ha origini legate alle correnti religiose della riforma – è o dovrebbe essere la costituzione di tutti: non vi si parla di Dio, e tanto meno ovviamente lo si nega. Rinunciare a inserire per iscritto qualcosa in cui non tutti si riconoscono è a mio avviso la soluzione più lungimirante, per un’Europa che di fatto non è neutra ma ha “incorporato” nelle sue istituzioni i valori di cui parliamo.