Stupore, indignazione: il Cavaliere ha parlato, parla, continua a parlare: di una sentenza. Non si ferma, nemmeno davanti a quelli della Confindustria. Però, avverte Franceschini con Di Pietro, non deve andare in Parlamento. Mah…
Il diritto alla parola è inalienabile e, dunque, insopprimibile. Su su fino al Parlamento (lo dice la parola stessa). È una sorta di principio, di diritto naturale, soprattutto quando la parola serve alla difesa, di sé, degli altri, di un principio, appunto. Che appartiene a chi è giudicato e a chi giudica.
I giudici, si dice, parlano attraverso le loro sentenze. Infatti i giornali e le Tv sono pieni di una sentenza che parla di un’altra sentenza annunciata: contro il Premier. Certo, la giustizia non deve guardare in faccia a nessuno. Ma Berlusconi non è un nessuno, è un leader politico più volte legittimato dal voto popolare, governa, ed è in campagna elettorale. La domanda che ci si pone è se il deposito così tempestivo, dopo un processo durato quasi tre lustri, di una doppia sentenza (effettuale e annunciata) sia un atto dovuto. Forse. Ma se davvero la magistratura cercasse il dialogo, quali problemi gravi sarebbero insorti qualora quel deposito fosse stato effettuato il giorno dopo le elezioni? Si dice: la magistratura deve essere indipendente, anzi, lo è. Dovrebbe anche apparire, indipendente.
Ma persino i bambini sanno che le cose non stanno così. Costituitasi dal 1994 in potere altro, e non più in funzione, la giustizia italiana continua da quindici anni a dettare una sorta di contro-agenda politica, sbandierandone la propria orgogliosa autonomia pur sapendo di avere un suo Parlamento, il Csm, composto con gli stessi identici criteri di quello, con tanto di correnti e sottocorrenti politiche.
La sentenza contro Mills è di per sé discutibile, come tutte le sentenze. Ma l’affermazione contenutavi su un Berlusconi corruttore è non solo tutta da dimostrare, ma è in sé molto, molto discutibile, mancando la prova regina. Detta alla vigilia di un test elettorale, non c’è chi non veda una irruzione della magistratura nella dialettica politica, tanto più che l’anno scorso l’iniziativa di un giudice provocò la caduta del governo di sinistra e, nel 1994, bastò un avviso di garanzia al Premier di allora (e di oggi) per mandarlo a casa.
Dopodichè il dialogo è aperto. Ma ad una condizione: che sia ad armi pari. Forse ha fatto bene il Cavaliere a non correre a Montecitorio a raccontare la sua versione dei fatti. Non per i veti gridati da Pd e Idv. Ma perché ha la scusa di raccontarla ovunque e comunque.
E, se proprio andrà in Parlamento, ci vada proponendo una seria, moderna, rigorosa, non più rinviabile riforma della Magistratura.