Se si registrano scarsa attenzione e sostanziale disimpegno nei confronti delle elezioni europee non è colpa dei partiti né del qualunquismo italiano. La verità – che è scomodo riconoscere – è che l’allargamento ideato nella seconda metà degli anni novanta è stato realizzato traducendosi in una sorta di allontanamento. Oggi l’Unione Europea è generalmente vista e vissuta come un’entità molto più lontana che negli anni ottanta e novanta. Perché? Perché si è impostato l’allargamento secondo tre errori di fondo.
Il primo errore è stato quello di consegnare la tabella di marcia agli americani. L’ingresso nell’Unione europea è stato sempre, paese per paese, successivo a quello nella Nato. Far decidere la scansione dei tempi e la graduatoria degli ingressi al comando del Patto Atlantico ha configurato una subalternità di Bruxelles ed un interesse strumentale ad entrare nell’Unione. La Ue è diventata (o comunque è stata vissuta man mano) sempre più come una sorta di premio, non di autonoma priorità. Si entrava nella Nato e in cambio vi era l’accesso alle istituzioni europee considerate come fonte di assistenza e di finanziamenti a pioggia. Aver scelto o accettato – al di là dei formalismi delle procedute di ammissione – che la Ue fosse considerata una meta assistenziale da raggiungere attraverso un’intermediazione Usa non è stato senza conseguenze.
Il secondo errore è stato quello dei partiti socialisti che hanno considerato l’allargamento come una sorta di “arrivano i nostri”. Si sono cioè preoccupati di inglobare in blocco i partiti comunisti che avevano cambiato nome aderendo al Partito Socialista Europeo senza una analisi storica e sociale. Per tale ragione nel 1992 quel partito aveva cambiato nome assumendo la denominazione di Partito del socialismo europeo al fine di sottolineare come intendesse trasformarsi in contenitore acritico di più famiglie. C’è un fatto significativo che in Italia la “grande stampa” ha ignorato. Il 25 gennaio 2006, nell’assemblea di Strasburgo, il gruppo socialista europeo votò contro il documento di condanna dei crimini comunisti in quanto così – esso affermò nella dichiarazione di voto – sarebbero finiti sotto accusa ”uomini idealisti che si sono battuti per la libertà, di cui alcuni sono anche in questa assemblea”.
Il terzo errore – per la verità è stato un fenomeno molto secondario, ma c’è stato anche questo – è rappresentato dai banchieri che vedevano nell’allargamento il dischiudersi di una terra di conquista nei paesi ex comunisti e che poi si sono rivelati i più disarmati nel ciclone finanziario. Tra americani, socialisti e banchieri si alimentò a Bruxelles un clima da “belle époque” – la fine del comunismo come “fine della Storia”, “Ulivo mondiale” – che ha fatto vedere l’allargamento come una cooptazione priva di problemi e senza necessità di governarla.
Il risultato è che oggi quando si guarda alla televisione una panoramica delle aule di Bruxelles o di Strasburgo l’assemblea dell’Unione Europea suscita la stessa emozione di una riunione dell’Onu o dell’Unesco: non vi è moto di appartenenza e di identità ovvero di ciò che, senza scomodare Freud anziano, vengono ritenuti “i sentimenti d’identificazione di cui ogni ambito civile ha tanto bisogno”.
Si tratta di un corso dell’unificazione europea che il prossimo parlamento potrebbe frenare ed invertire oppure peggiorare. Esiste infatti ormai una consolidata ed autorevole corrente di pensiero a sostegno dell’Ue-Onu-Unesco. E’ interessante da questo punto di vista il modo in cui dell’unità europea ha parlato di recente Andrea Riccardi proprio ritirando un premio “europeo” intitolato a Carlo Magno. Egli ha suggestivamente tratteggiato la prospettiva di un’Unione Europea come mondo delle mille “heimat”. “Mille heimat” che – come ha tenuto a precisare Riccardi – sono l’anticamera per prefigurare, nel quadro di una “immigrazione epocale” che stiamo vivendo, le “mille etnie” da integrare. Certamente occorre dar vita ad una politica di assistenza e di integrazione senza negare a nessuno il necessario “Piano Marshall”, ma un’Europa di “mille heimat” e di “mille etnie” significa in concreto un’Europa senza anima, senza identità e senza spina dorsale. Si profila così un futuro dell’Unione come una sorta di maxi Comunità di accoglienza: molti soldi, ma nessun ruolo nel governo mondiale.
Come reagire? Non bisogna vergognarsi di De Gasperi, Adenauer e Schuman e partire riconoscendo la realtà e la verità. Gli uomini di governo che considerano l’Unione solo come occasione di fondi da ricevere e di propri cittadini di cui sbarazzarsi è una Europa di “serie B”. Un governo paritetico e con diritto di veto in cui l’Estonia è sullo stesso piano della Germania può fare piani di riparto e stabilire regole, essere un po’ Croce Rossa e un po’ Autority, ma non è un interlocutore reale, un attore su una scena internazionale dove agiscono Obama e Putin. L’allargamento è ormai sul ciglio di un’Europa in ordine sparso.
Proprio la crisi economica internazionale ha in alternativa fatto emergere la residua soggettività europea. L’”Europa di fatto” in cui è possibile identificarsi e che ha capacità di decisione si è vista – come è stato sottolineato da Tremonti – il 12 ottobre 2008 a Londra. L’area dei paesi della moneta unica più la Gran Bretagna rappresenta la base di un possibile rilancio. E’ intorno a questo nucleo storico che – dalla Svezia alla Polonia – si può ricominciare a costruire un’Europa come “patria” con storie e radici condivise, capace di suscitare passione e interesse per un futuro insieme. La “cittadinanza” europea in termini di appartenenza e di identità può essere ritrovata partendo da questa Europa dei dodici che è anche il numero delle dodici stelle la cui origine nella storica bandiera europea fortunatamente è ignota ai patrocinatori dell’Ue “accogliente” e priva di idealità. Altrimenti le avrebbero già cancellate.