Continua su ilsussidiario.net il dibattito sull’Europa. È vero, dice il politologo Leonardo Morlino, che le elezioni europee sono molto meno sentite dal grande pubblico, ma è anche vero che «stiamo costruendo, ormai da diversi decenni, una identità assolutamente nuova». L’Europa, questo è certo, manca di riforme importanti, a cominciare dal suo assetto istituzionale. Ma più ancora servono i grandi ideali culturali e politici che hanno sempre sorretto le costruzioni politiche. L’epoca dei grandi simboli, però, si è conclusa. E l’Europa lo rispecchia in pieno: la strada istituzionale che la Ue ha ormai imboccato – dice Morlino – è quella dell’Europa minima, una macro-istituzione «ampia e debole».



Professore, si torna a votare per le europee. Ma è forse storicamente difficile trovare il caso di così tanti milioni di persone, come nell’Ue, che così poco conoscono le istituzioni per le quali danno il proprio voto.

Un momento, è bene chiarire subito un punto. Noi stiamo costruendo, ormai da diversi decenni, una identità assolutamente nuova, che non è più lo stato nazionale. Mentre le elezioni, come noi siamo abituati a pensarle, sono il meccanismo rappresentativo che ha funzionato – più o meno bene – per lo stato nazionale. Ecco perché il significato stesso delle elezioni europee, se lo guardiamo meglio da vicino, è diverso da quello col quale eleggiamo i rappresentanti allo stato nazionale.



Che cosa cambia?

Mentre per lo stato nazionale vale l’analisi che si è fatta da sempre, e cioè che l’eletto è il rappresentante di interessi generali all’interno del paese, in Europa – soprattutto nella realtà, al di là delle dichiarazioni – l’eletto è il rappresentante allo stesso tempo di valori e politiche ma anche di interessi territoriali. E spesso questi secondi prevalgono sui primi.

L’antieuropeismo accusa il fatto che la realtà politica ed economica degli stati nazionali, oltre che gli interessi di cui questi sono portatori, è costretta a misurarsi con un processo di edificazione del federalismo europeo che non sarebbe conciliabile coi primi. E la contraddizione sarebbe insuperabile.



Ma nel momento in cui si comincia a costruire l’Unione europea, tutti quanti fanno una rinuncia ad un pezzo di sovranità, e lo fanno in vista di vantaggi economici precisi: quello che può portare di buono la liberalizzazione dei mercati, e gli aiuti economici che possono alleviare aspetti negativi diversi da stato a stato, come sottosviluppo e disoccupazione per esempio. La rinuncia alla sovranità viene premiata da altre compensazioni non meno importanti. Questo è il punto fondamentale. Allora l’antinomia che c’è sulla carta viene risolta e superata in vista di questi vantaggi.

Resta il fatto che in Europa si parla molto di diritti, ma assai meno di limiti fondamentali – dei limiti cioè della legislazione europea nei confronti delle legislazioni nazionali. E la prima diviene preponderante…

Si parla di diritti perché, dal punto di vista della comunicazione, risulta più efficace dal punto di vista di istituzioni che hanno il problema di guadagnarsi legittimazione, proprio perché da parte dei cittadini non si capisce molto bene fino in fondo a che cosa servono. L’euro però ci ha in parte protetto dalla tempesta economico-finanziaria e di questo bisogna onestamente essere consapevoli. Quello che si vede di meno sono i vantaggi dal lato delle politiche che dovrebbero attenuare e compensare problemi come sottosviluppo e disoccupazione. E questi vantaggi non si sono visti bene.

A quali vantaggi mancati fa riferimento?

Parliamo per esempio delle due politiche principali, fondi strutturali e politica agricola. In certi paesi sono state costruite infrastrutture, è questo è un fatto positivo, ma i dati dello sbilanciamento tra le aree territoriali – valga per tutti il nostro paese – dicono che i fondi strutturali sono stati un fallimento, perché lo sbilanciamento è rimasto in pieno. Hanno avuto effetti che non si misurano però in termini di indicatori economici e analisi economica: hanno cambiato le burocrazie regionali, portando in certi paesi a un maggiore decentramento e in altri paesi, come Grecia e Portogallo, ad un maggiore accentramento.

Lei citava anche la politica agricola.

La politica agricola è stata molto utile in certi anni, ma allargata e soprattutto attenuata e modificata come lo è ora è diventata più una politica di tipo ambientalista, una politica per la salute che non un aiuto reale per gli agricoltori.

Fino ad oggi le istituzioni sono state l’espressione della storia di un popolo, mentre quelle europee sembrano più un portato ingegneristico costituzionale, nel quale il nesso simbolico tra popolo e istituzioni è assente….

…è come se fossero istituzioni imposte, nate nell’ambito di gruppi di élite e noi le sentiamo meno nostre.

Proprio per questo le chiedo: l’Europa politica è soltanto un ideale regolativo o può nascere per davvero?

Direi che l’Europa politica è una realtà regolativa. Che poi questo corrisponda anche a dei valori e a degli ideali non ne sono così sicuro. Il problema di fondo è che noi stiamo parlando dell’edificazione dell’Europa politica ma avremmo bisogno di grandi ideali, di grandi partiti e di grandi ideologie – nel senso buono del termine – ma ormai siamo un mondo che non ha più né grandi ideali, né grandi partiti, né grandi ideologie. Lo vediamo anche nel piccolo: i processi di democratizzazione negli stati nazionali non hanno più come protagonisti i partiti, come lo è stata la Dc nella costruzione democratica italiana, o la Democrazia Cristiana tedesca o la stessa socialdemocrazia tedesca nella costruzione della democrazia tedesca o nella riunificazione della Germania divisa.

Con il risultato di un deficit di democrazia?

 

Diciamo che questa carenza simbolica rende tutto più difficile, mentre dovrebbero essere i simboli a dare più consistenza a quello che molti autori importanti hanno chiamato lo spazio pubblico europeo. Ma questo spazio di che cosa si riempie? Dal momento che gli interessi sono molto precisi e parcellizzati e noti solo a tecnici o a persone toccate da questi interessi a livello industriale, agricolo, di regolazione, è chiaro che essi investono il grande pubblico se non indirettamente o in via marginale.

La crisi economica può aver aumentato la considerazione delle istituzioni europee?

La crisi economica ha fatto e farà vedere l’euro al grande pubblico in modo diverso. Di nuovo però questa rappresentazione assolve al ruolo in via “negativa”, come è tipico di ogni strumento cautelativo, non in via positiva o costruttiva. Ma siamo comunque in un ambito apprezzabile, di cui è possibile riconoscere pubblicamente l’importanza.

Le sembra che questo spazio pubblico sia conflittualmente conteso tra un pragmatismo crescente a livello di istituzioni e invece un insieme di valori sostanziali – della persona, della vita, della solidarietà, della giustizia?

I valori esistono, sono anche dichiarati nei trattati, nei quali troviamo la proposta di una democrazia che tiene conto dei diritti civili e sociali. Il problema è: qual è la loro attuale traduzione politica in ambito europeo? Questi aspetti sono alla fine controllati dagli stati nazionali perché sono aspetti che hanno un costo, come nel caso del welfare. Un buon welfare, che appare un dovere sociale, ha un costo elevato perché richiede una buona politica sulla disoccupazione, sulla salute, sull’educazione. C’è un contrasto effettivo tra la democrazia dichiarata, da una parte, e i condizionamenti alle politiche economiche che l’Europa stessa pone, dall’altra. Che pone e deve porre, altrimenti andiamo verso condizioni economicamente insostenibili.

Il multiculturalismo come sfida l’assetto istituzionale europeo?

Il multiculturalismo ormai è un dato storico in alcuni paesi, più recente in altri. Pretendere di andare contro questo dato storico sarebbe sbagliato, perché ci metterebbe in situazioni non solo da un punto di vista umanitario, quindi etico, inaccettabili. Da questo punto di vista però l’assetto europeo è “naturalmente” predisposto ad accettare il multiculturalismo perché è il multiculturalismo concretamente esistente, nelle sue varianti, in tanti paesi europei. Il punto è fino a che punto si può spingere. Può comprendere anche la Turchia? È una domanda rilevante.

Lei cosa pensa?

Se mi avesse fatto questa domanda prima del 2000, cioè prima dell’allargamento deciso col Consiglio europeo di Nizza, le avrei detto: si tratta di fare una scelta netta, tra un’Europa molto più unita, coesa e ristretta, con un mercato unico e una unione politica molto più facile da costruire, e un’Europa molto più larga e più debole. Ma dopo l’allargamento abbiamo imboccato la strada dell’Europa minima. Ecco perché inglobare la Turchia è un passaggio ovvio se non addirittura una necessità.

Qual è la sua opinione sui punti richiamati da Antonio Padoa Schioppa pochi giorni fa su questo quotidiano, quando ha detto che «Parlamento, Commissione e Consiglio dei ministri non hanno ancora raggiunto un assetto istituzionale corretto»?

Sono i nodi più importanti. C’è ancora spazio per quanto riguarda la codecisione, che se estesa può man mano trasformare il Parlamento da quello che è ora, cioè un parlamento di interessi, “corporativo” – mi si passi naturalmente l’accezione buona del termine – a un parlamento più “misto”, in cui cioè ci sono anche interessi più generali. Vale per l’agricoltura e per certi aspetti della politica estera, quelli legati alle politiche di promozione della democrazia.

Lo stesso per i sistemi di voto?

Sì. Costruire la maggioranza, passando dalle maggioranze qualificate a quelle assolute sarebbe un passaggio importante. Lo spazio per andare avanti e rendere più efficienti i processi decisionali – con le maggioranze – o renderli più legittimi – con la codecisione – è ancora uno spazio che possiamo e dobbiamo percorrere.

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