La crisi del sistema finanziario ha rimesso in discussione il sistema capitalistico ed è giunto il tempo di approfittarne. Non certo per fare la rivoluzione, ma per rimettere la persona al centro del lavoro. Lo auspica Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl: l’ingresso dei lavoratori nell’azionariato di Chrysler è un modello da seguire. Farebbe bene sia alle aziende sia ai lavoratori. «E permetterebbe – dice il segretario della Cisl – di svilire in partenza non solo le derive plebiscitarie, ma anche quelle collettivistiche». Un correttivo, insomma, a chi alimenta ancora un clima di irresponsabilità.
Segretario Bonanni, l’accordo Fiat-Chrysler è stato raggiunto. Prima di voltare pagina e affrontare i problemi del dopo, qual è la sua opinione?
La mia valutazione non può che essere positiva: l’accordo è l’occasione storica per arrivare all’alleanza con una grande compagnia. Chrysler apre a noi un mercato finora sostanzialmente precluso, nel quale le utilitarie sono di fabbricazione estremo-orientale. Attraverso l’accordo Fiat potrà certamente avere più spazio. È una grande occasione, per Fiat e per il nostro paese. Il merito va a quelle persone, Marchionne in testa, che hanno costruito e lavorato per l’accordo. Ma faccio menzione anche di quei sindacati che, nel tempo, hanno creduto e cooperato alla ristrutturazione di Fiat e alla ridefinizione del suo ruolo.
Una profonda ristrutturazione attende però l’intero settore, Fiat compresa. E si teme per unità produttive come Termini Imerese e Pomigliano d’Arco. Quale può essere la soluzione?
Sono convinto che una prospettiva non solo per Termini e Pomigliano, ma anche per altri siti produttivi Fiat in Europa ci sia se si dà immediatamente corso ad un ampio progetto basato su innovazione e uso intensivo della ricerca in direzione delle nuove tecnologie, finalizzate a produrre motori a basso consumo e a ridotto impatto ambientale. Andiamo incontro ad una ridefinizione complessiva della produzione ed questa è una strada che va percorsa senza indugio.
Questo non eviterà molti sacrifici in termini occupazionali. D’altra parte negli ultimi anni gli italiani e il governo hanno dato molto a Fiat… Come attuare un clima di collaborazione anziché di antagonismo?
Occorre, come ho detto in più occasioni, ritrovare punti di incontro, ma anche più coraggio, da parte del governo, della Fiat e da parte dello stesso sindacato. Il caso Detroit è un esperimento molto importante, che racconta come serve più coraggio per trovare soluzioni anche attraverso ambizioni sociali e politiche fortissime.
Parla dell’ingresso dei lavoratori nell’azionariato di Chrysler? Da noi però non è attuabile.
Quel fiore nel deserto di Detroit nasce in realtà in Europa. Pur di salvare posti di lavoro, i lavoratori si sono assunti un onere rilevante, il governo ha fatto altrettanto e l’azienda pure. Col risultato di una partecipazione attiva dei lavoratori nel capitale dell’azienda e con la prospettiva di una certa parte di controllo sull’azienda stessa. Ma questo è un tipico frutto della cultura sociale europea.
Lei sta insistendo molto sul modello partecipato. Non rischia di rimanere uno slogan?
È crollato un sistema capitalistico centrato sulla finanza che obbedisce soltanto alle proprie regole e che non ha l’uomo al suo centro. La mia proposta viene in un momento di complessivo ripensamento che mi sembra doveroso. Ora c’è la possibilità di ricostruire dalle macerie nelle quali ci troviamo un minimo di prosperità, attraverso la creazione di nuova ricchezza ma anche attraverso un uomo più consapevole della sua vocazione. È per questa via che si ricostruisce un equilibrio tra l’interesse dei molti e l’interesse dei pochi.
Accanto alla funzione riformatrice che deve avere il sindacato, lei non ha mancato di puntare il dito contro un certo conservatorismo di ambienti imprenditoriali italiani. Cosa manca nel nostro paese per guardare con più favore questo modello partecipato?
Quell’apertura che porti a pensare che la propria intrapresa ha più forza quando coinvolge tutti coloro che hanno un interesse al progetto, essendone parte attiva. Archiviata la divisione ideologica tra capitale e lavoro, un progetto ha tanta più efficacia se è la comunità intera a vederlo come un progetto che appartiene alla comunità stessa e ne promuove lo sviluppo. Ecco perché Tremonti, quando parla di economia sociale di mercato, dovrebbe forse dare un senso più coerente e operativo a quello che dice. Io penso che economia sociale di mercato voglia dire compartecipazione tra impresa e lavoratori, per valorizzare le potenzialità e la responsabilità di entrambi. Ma a quel punto occorre riconoscere ai lavoratori capacità di governo.
Non tutti i sindacati sono come il suo, questo deve ammetterlo. Esistono posizioni più intransigenti, se non estremiste.
Io credo invece che questo mutamento darebbe più forza all’impresa ma anche alla democrazia, permettendo di svilire in partenza sia le derive plebiscitarie sia quelle collettivistiche. È venuto il momento, penso, di una nuova responsabilità. Occorre di nuovo un primo fine, capace di dare un senso pieno all’opera dell’uomo, quindi del lavoratore, un fine che il lavoratore deve servire con intelligenza e in collaborazione con gli altri. Se viene meno questo senso di responsabilità la comunità dissipa le proprie energie fino a sgretolarsi. Il corto circuito nichilistico della finanza, avvenuto perché si è smarrito il senso del fare finanza, cioè di servire il bene vero della persona, dovrebbe servire a tutti di lezione.
Il 20 maggio la Cisl sarà a congresso. Quali saranno i temi portanti?
Intendo partire dall’analisi della crisi del modello capitalistico e mostrare un’alternativa, che è la partecipazione nei modi che un lavoratore può mettere in campo: da sistemi contrattuali come quelli che abbiamo realizzato fino ad arrivare a modelli bilateralistici, alla richiesta al governo dell’azionariato collettivo. Proporrò una rivalutazione di tutte le realtà partecipative, per esempio della scuola, rivalorizzando i consigli scolastici.
Del federalismo cosa pensa?
Anche il federalismo è un esempio di quello che vado dicendo: senza il carico del proprio mattone non si costruisce nulla né per gli altri né per se stessi. O è federalismo a tutto tondo che ricorre anche alla sussidiarietà della società civile che organizza e produce, o altrimenti dovremo prepararci ad uno statalismo a scala ridotta.
Si è scompattato il fronte sindacale. La politicizzazione progressiva della Cgil per voi è un guadagno o una perdita?
Direi entrambe le cose. Una perdita perché la disunità porta minor forza, ma un guadagno perché la politicizzazione spinta mostra bene come si possa svilire l’azione sindacale se si mischia con una funzione con la quale non ha nulla a che fare. Funge bene da spia del degrado che può avvenire.