Si sta aprendo ufficialmente la campagna elettorale per le elezioni europee del 6 e 7 giugno. Un appuntamento che finora è stato guardato solo dal punto di vista interno, soprattutto in merito alle posizioni dei partiti sulla vicenda delle candidature. Ma che valore hanno in realtà queste elezioni europee? Per che cosa andiamo a votare? Ne abbiamo parlato con Piero Ostellino, editorialista del Corriere della Sera.



Ostellino, al di là di quelli che sono i problemi di strategia politica interna al nostro Paese, in che modo gli elettori che si apprestano a eleggere i propri rappresentanti al Parlamento europeo devono affrontare questo appuntamento?

Devono innanzitutto riflettere sui dati che descrivono la nostra situazione rispetto al resto dell’Europa. L’Italia è al sestultimo posto quanto pesantezza delle procedure per avviare un’impresa, ed è al penultimo posto per tempo necessario per espletarle: 10 giorni per avviare l’impresa, 257 per ottenere una licenza, 1.210 (più di tre anni) per concludere l’iter di un procedimento giudiziario. Quanto ai costi, poi, siamo al terzultimo posto, con costi di oltre dieci volte superiori ai paesi più virtuosi. Ecco: gli italiani che vanno a votare alle europee dovrebbero chiedere ai loro rappresentanti di rappresentare meglio questa Italia, per fare in modo che l’Europa intervenga, secondo il principio di sussidiarietà, laddove l’Italia non ce la fa da sola, per rendere più facili e rapide tutte le procedure che consentirebbero all’Italia di avere un’economia più sviluppata. Noi andiamo in Europa come il fanalino di coda, e solitamente non facciamo nulla per ottenere quello in cui l’Europa ci potrebbe essere utile proprio per superare queste vischiosità amministrative. I cittadini italiani dovrebbero innanzitutto chiedere questo.



Tutto ciò vale a riguardo dell’Italia in rapporto al resto d’Europa; qual è invece il suo giudizio sulla condizione e il valore delle istituzioni europee?

Il mio giudizio parte dalla constatazione che l’Europa non è un organismo legittimato da un’effettiva rappresentanza popolare: non c’è una democrazia rappresentativa in Europa, perché il Parlamento conta pochissimo, mentre contano soprattutto il consiglio dei ministri, in particolare quelli economici. L’esito è che tutto viene affidato a interpretazioni e procedure di carattere tecnocratico. Si risponde alle domande politiche che nascono dai singoli paesi e dalla interazione tra i singoli paesi con risposte di tipo tecnocratico, la più evidente e pericolosa delle quali è la richiesta (che viene proprio da parte dei tecnocrati europei) di una armonizzazione fiscale.



Questo quali rischi comporterebbe?

Ci porterebbe sostanzialmente ad essere come l’Unione Sovietica, pur in un sistema di democrazia come il nostro. Tutti i paesi si adeguerebbero probabilmente al paese che fa pagare le tasse più alte in Europa: quindi il provvedimento non servirebbe ad abbassare la pressione fiscale, ma a soddisfare la voracità dei singoli governi. Al contrario, se c’è una cosa che ha una sua funzione sul piano della concorrenza è proprio il fatto che ci sia anche una concorrenza fiscale. Altrimenti sarebbe perfettamente inutile aprire alla libertà di movimento degli uomini e dei capitali, se poi i capitali fossero costretti a pagare le stesse tasse. Che libertà di movimento sarebbe? Il punto è dunque il fatto che l’Europa, non sapendo dare una risposta politica a certi problemi, si rifugia nel tentativo di soluzione concepite da tecnocrati, che porterebbero a reggere l’Europa su basi dirigistiche e centralistiche. Tutto questo si vede, per fare un altro esempio, nel modo con cui è concepita l’agricoltura a livello europeo.

Si può ovviare a questa debolezza dando più forza al Parlamento europeo, a discapito del potere dei tecnocrati?

Sicuramente è importante dare più peso al Parlamento, cioè dare più voce ai rappresentati, alla popolazione, che – ad esempio – non è certo interessata a pagare più tasse. A condizione però che questo non si trasformi in un rafforzamento eccessivo dei rappresentanti, esattamente come avviene ormai in tutte le democrazie rappresentative. È inutile nasconderci il fatto che le democrazie non funzionano più come noi vorremmo, per il fatto che i rappresentanti hanno ormai un potere eccessivo rispetto ai rappresentati. Non c’è un bilanciamento dei poteri, per cui è nata un’aristocrazia dei rappresentanti che ha lo stesso potere assoluto che avevano i monarchi abbattuti dalla rivoluzione francese. Il trasferimento dei poteri al popolo è avvenuto in realtà in favore dei soli rappresentanti del popolo. Questo è il rischio cui bisogna stare attenti anche in Europa.

A livello europeo si gioca anche un’importante partita culturale, incominciata soprattutto con il dibattito intorno al tema delle radici cristiane dell’Europa: cosa pensa della posizione fortemente laicista che spesso l’Europa incarna?

Io, da liberale non credente, dico che l’idea di non riconoscere le radici giudaico-cristiane della nostra cultura è un abominio. Per una ragione molto semplice: anche il non credente sa che siamo debitori a questa tradizione, e che questa tradizione è un dato storico, che non si può negare in modo ideologico in nome di un generico richiamo alla laicità. Essere laici in questi termini non ha significato: essere laici significa semplicemente distinguere la sfera della sovranità dello Stato da quella dell’autorità morale della Chiesa. Non significa negare un fatto storico. Che il liberalismo e la democrazia liberale siano debitori della tradizione giudaico-cristiana, la quale per prima ha posto  al centro la persona (che poi i liberali hanno chiamato individuo) è un fatto innegabile. Non mettere questo nella Costituzione europea, quindi, è un errore storico, in nome di un pregiudizio ideologico.

Questo pregiudizio spiega anche una certa ostilità nei confronti del Papa e della Chiesa, che si è vista anche in episodi molto recenti?

È appunto un malinteso senso della separazione tra sovranità dello Stato e autorità morale della Chiesa. Il Papa si rivolge ai fedeli, non a me – ad esempio – che non sono credente, che cioè non sono stato toccato dalla grazia. Io mi ancoro alla coscienza individuale, coscienza che pure – e questo lo dice anche il Papa – attiene anche alle tradizioni, al nostro “dna” culturale. Non è relativismo soggettivistico: la coscienza individuale è frutto di una coscienza maturata nel tempo attraverso la tradizione e la storia. Anche lì subentra la tradizione giudaico-crisitana. Se questo non lo si capisce, significa che si vuole eleggere il laicismo a nuova religione di Stato, facendo esattamente la stessa cosa di chi vorrebbe imporre uno Stato teocratico.

Infine, in sintesi: qual è secondo lei il futuro dell’Europa?

Il futuro dell’Europa, soprattutto di fronte alle sfide della globalizzazione, è quello di fare blocco e di cercare di alzare il tiro del mercato comune, della libertà di uomini e capitali all’interno della comunità europea, per far fronte alla concorrenza degli altri blocchi, soprattutto gli Stati Uniti e gli stati asiatici. Questo dal punto di vista economico. Non vedo invece un futuro politico serio se non si capisce che l’edificazione dell’Europa non può avvenire con gli stessi criteri con i quali è nato lo stato nazionale. Cioè con criteri centralistici, burocratici e tutto sommato autoritari. Se l’influsso del giacobinismo francese – che è poi la stessa matrice del laicismo esasperato di cui sopra – sarà così forte da imporre la crescita di un’Europa sull’esempio dello stato di impostazione napoleonica, l’Europa non sarà una comunione di liberi, ma la brutta copia di uno stato nazionale.

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