Le elezioni europee sono alle porte. Il rito politico col quale gli italiani manderanno a Bruxelles i propri rappresentanti è l’occasione per riflettere sull’Europa, non solo sul suo ruolo e sulle sue istituzioni, ma sul significato stesso dell’Unione europea. Una cosa che è necessario fare – dice Ernesto Galli della Loggia, editorialista del Corriere – senza timore di andar contro l’ideologia europea del politicamente corretto, che vieta a proposito dell’Europa di porsi troppe domande. Perché, se lo si facesse con un minimo di lucidità e di obiettività, si scoprirebbe che l’Europa si trova in un vicolo cieco di portata storica. «L’intera costruzione europea sostiene Galli della Loggia – è stata fatta su una scommessa: che dall’economia si arrivasse alla politica. Ma questa scommessa è fallita».



Il 6 e 7 giugno gli italiani voteranno per le europee. Lei vede negli elettori italiani un reale interesse per la politica europea?

Ma che vuol dire interesse politico per l’Europa? L’unico interesse legittimo sarebbe giustificato se un governo, un partito o un politico facesse una proposta su come fare uscire l’Europa dall’impasse. Ma siccome non c’è governo, partito o politico che lo faccia, di cosa dovrebbero mai interessarsi gli elettori? Questo è il vero problema. La realtà è che l’Europa è soltanto di fatto un grande meccanismo erogatore di risorse. Per i quali invece l’interesse è massimo. A fianco di questa Europa c’è l’Europa della chiacchiera politica.



Ha parlato di impasse dell’Europa. Qual è allora la sua interpretazione del lungo processo di costruzione europea?

L’intera costruzione europea è stata fatta su una scommessa: che dall’economia si arrivasse alla politica. Questa scommessa è fallita. Nel frattempo si è sviluppata una chiacchiera politica europeista, divenuta opinione dominante. E si comminano scomuniche a chi non la condivide, accusato di essere euroscettico. Ma è più che comprensibile che uno sia scettico di fronte alle cose che non funzionano, e quindi proprio l’euroscetticismo è il frutto compiuto del fatto che questo progetto è fallito.



Il fallimento di un progetto storico istituzionale durato sessant’anni…

La forza dell’europeismo è diametralmente speculare all’entità di questo fallimento. Un colossale fallimento di cui non si vuole prendere atto perché farlo implicherebbe una serie di conseguenze molto pesanti e difficili. E allora cosa si fa? Poiché nessuno è in grado di rispondere, cioè non c’è nessuna proposta reale su come far esistere l’Europa, la chiacchiera europeista dice: non vi preoccupate, si risolverà tutto, l’importante è crederci. Un perfetto esempio di volontarismo senza senso.

Immagino che pesi sulla sua convinzione il fatto che non vediamo un federalismo compiuto, quello che voleva essere l’ideale europeo agli inizi, non è così?

C’è stato un grande allargamento ma di ordine economico. Sul piano politico invece passi avanti non ce ne sono stati. Questo perché il progetto iniziale di una unione politica era un progetto sbagliato. I soggetti politici non nascono per accordi di quel tipo. Un’unione politica poteva nascere soltanto subito dopo la guerra, sull’onda della sconfitta. Ma Francia e Inghilterra si sentivano tutt’altro che nazioni sconfitte. Solo il tempo ha permesso di capire che l’Europa era stata sconfitta e che usciva di scena, ma sul momento Francia e Inghilterra pensavano di essere tra i vincitori e allora che cosasi poteva fare, forse un’Europa di soli paesi sconfitti?

In un dibattito sull’Europa con Giuliano Amato pubblicato sulla rivista Il Mulino lei ha scritto che “il continuo appello ad essa, e la continua difesa della sua versione esistente in quel momento, non sia altro, alla fine, che un sintomo di debolezza”. Una transizione infinita verso quale assetto?

Verso nessun assetto, perché l’immobilismo più assoluto caratterizza l’Europa, che si trova in un vero e proprio vicolo cieco politico. Perché un’Europa come soggetto politico può nascere solo da una drastica rinuncia di sovranità da parte dei vari paesi, ma questa non può essere senza dar luogo ad una profonda situazione antidemocratica perché mentre l’azione del governo italiano è sottoposta al giudizio degli elettori italiani, nel momento in cui ci fosse una drastica riduzione di sovranità bisognerebbe creare una nuova autorità politica sovranazionale, la quale per essere veramente tale non dovrebbe più passare attraverso i governi, com’è adesso, ma essere in rapporto diretto con gli elettori.

Questo è il vicolo cieco di cui ha parlato, no?

Mi dice lei come può esserci un autorità politica in rapporto diretto con gli elettori se tra essi non c’è nemmeno un’unione linguistica? Il presidente degli Stati Uniti viene eletto da persone che lo comprendono. Non mai è esistito al mondo un soggetto politico i cui sudditi o abitanti o cittadini non potessero capirsi reciprocamente. È questo il problema centrale.

E condanna anche l’ipotesi federale?

Di federalismo ce ne sono tanti tipi, ci si può mettere d’accordo, ma è comunque un’ipoteca negativa anche sul federalismo.

Se l’Europa fosse innanzitutto un compito, centrato essenzialmente non sull’unità politica, ma su una base culturale? In altri termini, l’Europa ha senso se riscopre la sua identità culturale, nella quale le sue radici ebraico cristiane sono fondanti e restano l’unica possibilità data all’Europa per non andare contro se stessa…

Ma questa unità spirituale dell’Europa non la costruisce la politica. Sarebbe un’ambizione eccessiva per le spallucce dei politici europei. È un compito che spetta alla cultura, agli scrittori, agli intellettuali, alle università. La politica dovrebbe poi raccogliere tutto questo e portarlo al livello delle istituzioni.

La politica dei diritti umani può essere un trait d’union tra l’ispirazione che viene dai valori e l’attuazione politica?

È vero: la difesa dei diritti umani è un fatto politico, non mi pare però che l’Europa brilli particolarmente in difesa dei diritti umani, anche perché non ha nessuno strumento politico per farli valere. Può fare quello che ha fatto fino ad ora: emettere comunicati. Non mi sembra che nei luoghi e nelle occasioni in cui ci sono state violazioni clamorose di diritti umani, dalla Cecenia alla ex Jugoslavia, l’Europa abbia svolto un ruolo decisivo. Lo ha svolto solo al seguito degli americani, come in Kosovo, oppure non lo ha svolto per nulla.

Gli sforzi dell’Europa di darsi una politica estera comune sono giustificati?

Ogni politico avveduto sa benissimo che si va a Berlino o a Parigi a parlare non con l’Europa ma con la signora Merkel o con Sarkozy.

Quali prospettive intravede di fronte al “problema Europa”?

Non ho ricette, ma la prima cosa da fare di fronte ai problemi è rendersi conto che c’è un problema. Siamo invece ancora alla tappa precedente, cioè si nega l’esistenza del problema. Quello che io chiamo discorso europeista è esattamente questo: la negazione del problema. Per questo è una ideologia vera e propria, che come ogni ideologia divide il campo in amici e nemici. Per molti versi oggi l’europeismo ha sostituito quello che un tempo era il comunismo. Non ci sono certamente le prigioni europeiste… ma ideali – come l’ideale europeista – che in politica hanno una utilità pratica: quella di gestire la rappresentanza monopolistica del bene.

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