Dopo il fallimento del tentativo di instaurare un election day il 6 giugno per ottenere subdolamente e in frode alla Costituzione il quorum di partecipazione, il comitato promotore del referendum è andato incontro a un altro fallimento: la Corte Costituzionale ha respinto il suo ricorso per conflitto di attribuzione nei confronti della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai sulla programmazione radiotelevisiva della campagna referendaria.
Il comitato, che pure aveva rifiutato l’ipotesi di un rinvio del referendum a una data lontana dalle elezioni, lamentava di essere stato oscurato e chiedeva un maggiore spazio nelle trasmissioni Rai. Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Non c’è due senza tre e il prossimo fallimento che c’è da augurarsi è quello per mancato raggiungimento del quorum di validità del referendum.
È utile ricordare che nel caso del referendum abrogativo la disciplina costituzionale consente all’elettore tre possibilità: non solo il voto favorevole o contrario all’abrogazione, ma anche l’astensione, che consiste in un vero e proprio rifiuto della questione posta dai promotori. L’art. 75 Cost., infatti, richiede che, affinché il referendum abrogativo sia valido, partecipi la metà più uno degli aventi diritto al voto. In questo modo, i costituenti hanno imposto ai promotori – in fondo dieci cittadini, che hanno raccolto le firme di 500.000 elettori (l’1% dell’elettorato) – di dimostrare che la questione da essi proposta è sentita e accettata dagli elettori almeno come oggetto di confronto. L’astensione è quindi il modo più chiaro ed efficace per esprimere una specie di voto di sfiducia nei confronti dei promotori di un referendum che produrrebbe un esito antitetico alla nostra storia democratica.
Una tale sfiducia appare quindi opportuna: in caso di vittoria dei “si” non verrebbe, infatti, per nulla cambiato l’aspetto discutibile della legge elettorale attuale che è quello delle liste bloccate, cioè di elenchi di candidati imposti dalle segreterie di partito senza possibilità per l’elettore di esprimere una preferenza. Nemmeno verrebbe toccato il forte premio di maggioranza oggi vigente a favore della coalizione che vince l’elezione, piuttosto questo aspetto verrebbe enormemente amplificato fino a configurare una legge elettorale abnorme, simile alla famosa legge Acerbo del 1923 o alla legge “truffa” del 1953.
L’essenza di questo referendum, infatti, è che, in caso di vittoria dei “si” il premio di maggioranza non verrebbe più assegnato alla coalizione che ha vinto le elezioni, ma al partito che ha ottenuto la maggioranza relativa. In pratica si potrebbe verificare il risultato assurdo per cui se il partito più votato ottenesse solo il 20% dei voti sarebbe automaticamente portato sopra il 50% e si troverebbe comunque garantita la maggioranza dei seggi parlamentari.
Il “si” al referendum quindi introduce un mostruoso premio di maggioranza, in violazione del principio dell’eguaglianza del voto. Per stare all’esempio, il voto di chi ha scelto il partito vincente verrebbe a pesare enormemente di più di chi ha votato un partito che magari ha raggiunto solo il 19%.
Ma anche un altro fattore depone ora contro questo referendum: il sistema bipolare italiano (e non bipartitico come vorrebbero i promotori del referendum) nell’ultimo periodo ha fornito una grande prova di maturità politica, ad esempio, approvando con un largo consenso una riforma epocale come quella del federalismo fiscale.
Nella democrazia italiana si sta quindi lentamente superando quel bipolarismo manicheo basato sulla delegittimazione dell’avversario, che aveva caratterizzato i primi anni della Seconda Repubblica. I tempi, rispetto ad allora, sono cambiati, sono già avvenute volontariamente importanti fusioni tra forze politiche diverse, e il bipolarismo attuale si sta dimostrando anche capace di garantire una buona governabilità. Se vincesse il “si” tutto questo potrebbe essere travolto e ci si troverebbe di fronte a ben altre possibilità, in contrasto con quel pluralismo democratico che invece è coessenziale alla nostra storia democratica.
Nello specifico è utile allora ricordare che anche chi si recherà alle urne per i ballottaggi potrà votare per le amministrative senza comunque partecipare al referendum e quindi senza essere conteggiato al fine del raggiungimento del quorum di validità dello stesso. Basterà al momento della presentazione del documento di identità e della tessera elettorale, prima del ritiro delle schede elettorali, dichiarare che si intende votare soltanto per il ballottaggio e che, invece, non si intende partecipare al referendum, non accettando di conseguenza le tre schede referendarie.