Che quello attuale sia un pessimo sistema elettorale è un dato incontestabile (e incontestato). Il problema, tuttavia, è comprendere se il rimedio proposto dai referendari sia meglio del male che s’intende debellare. Ritengo di no.

Non è il caso d’attardarsi sul quesito riguardante le candidature multiple, la cui abrogazione, certamente, rafforzerebbe il sistema democratico: che un uomo politico possa presentarsi in più collegi, in modo da attrarre il voto degli elettori sul proprio nome (c.d. candidatura civetta), e che possa poi discostarsene, scegliendo il collegio ritenuto più conveniente sulla base di valutazioni derivanti dall’esito del responso elettorale, è doppiamente ingannevole e pericoloso. Per un verso, alimenta il malcostume e la clientela politica, dal momento che la scelta del collegio da cui dimettersi viene inevitabilmente subordinata alla stipula di un patto di fedeltà (o di altra natura) con il primo dei non eletti della circoscrizione coinvolta, con ciò originandosi una vera e propria asta al seggio parlamentare fra i candidati non eletti degli altri collegi, parimenti interessati dalle medesime dimissioni. Per altro verso, libera il rappresentante dal vincolo con i rappresentati del singolo collegio elettorale, rendendo il legame fra i due fungibile e privo di uno specifico contenuto territoriale; tale, insomma, da vanificare tanto il potere di controllo degli elettori, quanto la responsabilità politica degli eletti.



Se dunque questo solo fosse l’esito dell’iniziativa referendaria, non vi sarebbero dubbi: occorrerebbe votare per il sì all’abrogazione. Il fatto è, però, che in tal caso otterrebbero un pari giudizio favorevole, verosimilmente, anche gli altri due quesiti referendari, la cui abrogazione, viceversa, costituisce un pericolo per il mantenimento del sistema costituzionale. Le ragioni di deficit democratico rinvenibili nell’impianto elettorale del 2005, infatti, oltre a permanere, sarebbero accresciute in modo esponenziale.



Anzitutto, non verrebbero meno i motivi di criticità della vigente legge elettorale. Essi in particolare riguardano: l’attribuzione di un premio di maggioranza senza la previsione di una soglia minima di voti e/o di seggi per il relativo raggiungimento, oltreché senza la fissazione di una sanzione nel caso di scioglimento della formazione beneficiaria; la differenziazione delle soglie di sbarramento per l’accesso alla ripartizione dei seggi; l’introduzione delle c.d. “liste bloccate” e l’impossibilità per l’elettore di esprimere alcuna preferenza; la mancata previsione di misure promozionali della parità tra i sessi (c.d. quote rosa).



Permanendo tali caratteri, sarebbero inoltre accentuati i relativi effetti negativi. L’abrogazione della possibilità attualmente riconosciuta alle liste politiche di coalizzarsi fra loro, consentirebbe il conseguimento del premio di maggioranza alle sole liste singolarmente concorrenti (in assenza – lo si ripete – di una soglia minima di voti e/o di seggi per il relativo raggiungimento). Ciò, tuttavia, se, per un verso, favorirebbe l’integrazione tra le forze politiche interessate, incentivando la formazione di (appena contingenti) partiti-contenitore, per altro verso, amplierebbe a dismisura i poteri decisori delle relative segreterie politiche; e questo sia nella determinazione delle candidature a disposizione, sia nella successiva fase parlamentare e governativa. Si assisterebbe, insomma, ad una sostanziale vanificazione del controllo politico dei rappresentati e ad una pari vanificazione delle ragioni della rappresentanza parlamentare medesima, con una conseguente perdita di legittimazione democratica del sistema. Per convincersene, basti pensare a come già oggi tanto il sistema delle c.d. «liste bloccate» (che impedisce all’elettore di indicare il candidato preferito), quanto il ricorso al c.d. «voto utile» (che sconsiglia all’elettore di attribuire il proprio voto alla lista preferita, anziché a quella più competitiva), riescano ad affrancare il potere decisorio delle stesse segreterie da ogni vincolo giuridico e politico.

A titolo esemplificativo, si pensi alle pericolose implicazioni in tema di rappresentanza elettorale e di trasparenza delle decisioni parlamentari, derivanti dall’intreccio fra candidature a «liste bloccate» ed attribuzione del premio di maggioranza: l’indipendenza del singolo eletto nella lista di maggioranza relativa risulterebbe ulteriormente soggiogata dall’arbitrarietà decisoria della segreteria del partito d’appartenenza, unica vera artefice del successo elettorale dello stesso candidato, oltreché del conseguente ottenimento della maggioranza assoluta dei seggi ricevuti e, in definitiva, della propria nomina parlamentare. Per non dire degli ulteriori vantaggi partitocratici lucrabili una volta ottenuta la maggioranza governativa dalla medesima segreteria, a tutto detrimento del controllo parlamentare, della responsabilità politica e della partecipazione del corpo elettorale.

Il tutto, in definitiva, accentuerebbe ulteriormente l’immagine (e la realtà) di un Parlamento di figuranti, chiamati a ratificare i provvedimenti proposti dai responsabili di due soli partiti, quello di maggioranza e quello di opposizione; partiti oramai liberi finanche dal controllo politico attualmente riconosciuto alle liste di coalizione (al momento la Lega Nord per il PDL e l’Italia dei Valori per il PD).

Ecco perché il rimedio proposto dai referendari è peggio del male che intendono contrastare; ed ecco perché l’astensione diviene il modo più efficace per debellare detta eventualità.