Si avvicina la data per il referendum del 21 giugno. L’obiettivo dei referendari è quello di abrogare le candidature multiple, cioè la possibilità per i candidati di presentarsi in più circoscrizioni, e il meccanismo che consente ai partiti di presentarsi in coalizioni e di assegnare il premio di maggioranza alla coalizione più votata. Le liste non potrebbero più coalizzarsi tra loro e il premio – senza una soglia minima per l’attribuzione – andrebbe alle singole liste concorrenti. Nell’ottica dei promotori il referendum dovrebbe gettare le basi del bipartitismo e quindi della sospirata governabilità. Ma «è realistico e ragionevole – si chiede il politologo Roberto D’Alimonte – comprimere la complessità italiana in un bipartitismo rigido, che non ha l’equivalente da nessuna parte, nemmeno in Inghilterra?» Senza citare la logica referendaria della “pistola alla tempia”, che, lungi dal rivelarsi uno stimolo, potrebbe capovolgersi nel suo contrario, provocando misfatti.



D’Alimonte, entriamo per un attimo nell’ottica referendaria. I promotori vogliono abrogare le candidature multiple e l’attuale meccanismo di assegnazione del premio di maggioranza. Un tentativo di cambiare il sistema vigente per renderlo più governabile, è d’accordo?

Più governabile? Un momento, questo è il loro auspicio, ma è una tesi tutta da verificare. Se lei dice “più governabile”, introduce un giudizio di valore, ma per capire dobbiamo prima separare i fatti dai giudizi di valore. Quanto all’abrogazione delle candidature multiple, siamo d’accordo. Quanto al primo e al secondo quesito referendario – “Abrogazione della possibilità di collegamento tra liste e di attribuzione del premio di maggioranza ad una coalizione di liste”, in un caso per la Camera e nell’altro per il Senato – se vincessero i sì, il premio di maggioranza verrebbe assegnato non più alla coalizione ma soltanto alla lista più votata.



Non solo al partito dunque, ma alla lista di più simboli. Allora che cosa cambia?

Questa è un’obiezione che viene fatta ai referendari: cioè che alla fine non cambia nulla, perché invece di avere una coalizione ognuno con i propri simboli, tutti finiscono dentro una lista unica e siamo da capo. Ma a mio avviso il punto non sta qui.

E dove invece?

Un momento. Per completezza vediamo prima di figurarci la nuova, ipotetica scheda elettorale: mentre finora ogni partito si presentava col suo simbolo nell’ambito di una coalizione, se vincesse il sì avremmo – sempre per ipotesi – o singoli partiti che si presentano ognuno per conto proprio, oppure una lista con più simboli partitici.



Allora prendiamo, ad esempio, il Pd.

Esso potrebbe ospitare, nella sua lista targata Pd, il simbolo dell’Idv più quello, mettiamo il caso, di Sinistra e libertà. Le vecchie coalizioni verrebbero sostituite o da partiti singoli o da liste multipartitiche.

…le quali sarebbero finalmente il nuovo soggetto politico deputato a prendere il premio di maggioranza. Un’indubbia semplificazione, non le pare?

Ci sarebbe una spinta verso il bipartitismo, ma la vera domanda politica è questa: è realistico e ragionevole comprimere la complessità italiana in un bipartitismo rigido, che non ha l’equivalente da nessuna parte, nemmeno in Inghilterra? Sarebbe giusto in un paese come l’Italia e l’Italia sarebbe pronta per questo bipartitismo? Ebbene, gli stessi referendari sono divisi su questo. Sono obiezioni che lasciano perplessi, infatti, anche i fautori più accaniti. Allora cosa si sono inventati? Un’argomentazione molto curiosa: che quel che conta non è tanto la spinta al bipartitismo, ma il fatto che la legge elettorale attuale è una nefandezza e che il referendum avrebbe un merito: di renderla una nefandezza ancora maggiore. Al punto che la classe politica dovrebbe giocoforza cambiarla con una riforma.

Lo scopo referendario sarebbe quindi quello di accelerare le contraddizioni insiste in un sistema che scontenta tutti, per farne venir fuori qualcosa di nuovo.

Esatto. Funzionerebbe come una minaccia. Ma è un argomento singolare, perché lei capisce che quella riforma sarebbe certamente auspicabile, ma non dovuta. Chi lo dice che una riforma sarebbe migliorativa? Tanto che gli stessi referendari si sono trovati l’argomento “smontato” da Berlusconi, che ha detto: cambiare la legge elettorale? Ma se vincono i sì a me va benissimo. A questo punto qualche dubbio, ai promotori del referendum, è venuto. Come dar loro torto…

Lei ha citato Berlusconi, ma anche Franceschini ha dato ragione al sì.

Infatti. Se vincono i sì – ha argomentato Franceschini – noi riusciamo a separare Berlusconi da Bossi, quindi il referendum farebbe proprio al caso nostro. Anche questo dal mio punto di vista è un argomento un po’ curioso. Diciamo che è solo tattico-politico.

Dove sta allora la sua obiezione? Resta il fatto che i quesiti riportati nei fac simile, come tutti hanno avuto modo di vedere, sono estremamente complessi. A chi è animato dalle migliori intenzioni lei che suggerimento darebbe?

La persona razionale che deve decidere se andare a votare o meno dovrebbe porsi, a mio avviso, questa domanda: lo status quo che si verrebbe a creare con la vittoria dei sì, mi piacerebbe o no? Facciamo una prova: lo chiedo io a lei. Che cosa risponde?

Direi che in caso di alta frammentazione, mi sembrerebbe ingiusto che il partito maggioritario che avesse il 10% dei voti ottenesse uno spropositato premio di maggioranza. Che sancirebbe, oltretutto, l’ineguaglianza del voto.

Esattamente. Uno deve valutare lo status quo che si verrebbe a creare con la vittoria dei sì, e chiedersi: lo status quo che si verrebbe a creare con la vittoria dei sì sarebbe migliore o peggiore dello status quo attuale? Questa è la domanda che si dovrebbe porre chiunque va a votare. Alla domanda io, Roberto D’Alimonte, rispondo che la situazione che raggiungeremmo con la vittoria dei sì sarebbe peggiore di quella attuale. Badi bene che lo status quo attuale a me non piace, ma mi piacerebbe ancor meno quello che si verrebbe a creare con la vittoria del sì. Neanche la legge Acerbo (la legge elettorale introdotta dal fascismo, ndr.) prevedeva che venisse dato un premio di maggioranza senza una soglia. Quando si votò nel 1924 tale soglia era del 25%: una soglia bassa, ma almeno c’era.

Dunque, se ho ben capito, la risposta dei referendari è: d’accordo, ma se vince il sì quello status quo verrebbe sicuramente modificato.

Potrebbe, ma non è una conseguenza necessaria. Ecco allora la seconda domanda da farsi, nel calcolo razionale che stiamo simulando: quali sono le probabilità che lo status quo venga modificato? Infine la terza: modificato in che direzione? Proporzionale o maggioritaria?

Sta dicendo che potremmo paradossalmente ritrovarci con un proporzionale puro?

Assolutamente sì. Anzi, nei miei calcoli relativi ai due esiti possibili, se vincono i sì e viene modificato lo status quo – modifica in senso proporzionale e modifica in senso maggioritario – di questi è più probabile il primo, cioè una modifica in senso proporzionale!

E le sue preferenze quali sono?

Io propendo per un sistema maggioritario e per questo non andrò a votare. Mi affido al buon senso del legislatore perché modifichi in parlamento la legge elettorale. Poi se uno dice: le mie preferenze sono per un sistema proporzionale, nei suoi panni arriverei alla conclusione che è meglio votare.

Perché secondo lei si è arrivati a questo abuso – o, quantomeno, a questo “appannamento” dell’istituto referendario?

Penso che “abuso” sia il termine giusto: il referendum è stato strumentalizzato a fini politici, per cui l’abuso ha delegittimato lo strumento.

Ma allora la delegittimazione da dove viene? Dal tentativo di supplire a quello che non fa la classe politica?

C’è anche questo. La gente vede ormai lo strumento referendario con distacco. Un conto è chiedere alla gente se è pro o contro la monarchia, se è pro o contro l’aborto e il divorzio, altra cosa è sottoporre schede come quelle che si troverà in mano chi andrà a votare il 21 giugno. Che senso ha, se il quesito non è chiaro e se non sono chiari gli effetti del voto?

I promotori le rispondono: lo si fa per stimolare la classe politica a cambiare.

Ma allora diventano referendum sulla classe politica, strumenti di battaglia politica tra governo e opposizione e non sugli specifici temi di riforma. E tutto si complica quando è lo stesso sistema politico ad esprimersi: Berlusconi, prima delle elezioni del 6 e 7 giugno, diceva che sarebbe andato a votare; poi, dopo essersi consultato con Bossi e dopo la tornata elettorale, ha detto – attraverso una nota della Presidenza del Consiglio – che “non appare opportuno un sostegno diretto al referendum”. Penso che questo ingeneri non poca confusione.