Scosse, tumulti, scissioni e generazioni. Si sprecano le formule e le dinamiche per questa lunga transizione del centro-sinistra. I risultati delle elezioni europee hanno parlato chiaramente alla classe dirigente del PD, in attesa dell’esito dei ballottaggi, che qualcosa potrebbe ancora salvare. Ma aspettando di distinguere il buio pesto dalla notte stellata (sempre scura è questa nottata che non passa…) sono comunque iniziate le grandi manovre interne al partito, in vista del congresso del prossimo autunno.
Il quadro politico generale è in movimento e le truppe si attrezzano per la battaglia finale. Le posizioni in campo si vanno definendo, con discese in campo dirette e endorsement di varia natura e consistenza.
Partiamo dai dati certi. D’Alema appoggerà la candidatura di Bersani alla segreteria. E questo è un fatto noto da tempo. Anche Enrico Letta, che qualcuno voleva a dirigere la nuova formazione centrista che nascerà dalle ceneri dell’UDC, ha espresso parere favorevole alla elezione dell’emiliano ex Ministro dello Sviluppo Economico, con dei caveat però: maggiore attenzione alle classi produttive, apertura ai trentenni e ai quarantenni, forte radicamento territoriale.
Franceschini ha deciso comunque di giocarsi la carta della rielezione, sostenuto da Veltroni che lo promosse già suo vice.
Tutte le altre sono fronde, più o meno organizzate. Da Ignazio Marino a Ermete Realacci, fino a Paola Binetti, che vorrebbe catechizzare il partito contro la deriva ateistica o quanto meno agnostica. C’è poi anche il candidato di bandiera dei quarantenni, il Presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti.
Il punto più controverso, reso palese dalla recente missione di Franceschini a Bruxelles per la collocazione europea del PD dopo le elezioni, rimane la posizione del gruppo vicino a Francesco Rutelli. Un’area più vasta dei semplici numeri sulla carta e che saprebbe aggregare riferimenti politici spuri ma autorevoli (da Follini a Zanone). L’ingresso del PD nella nuova compagine all’Europarlamento denominata ASDE (Alleanza dei Socialisti e dei Democratici) non convince i rutelliani, che al direttivo del 26 giugno potrebbero comunque votare no alla confluenza in blocco nel neonato gruppo. Ciò non cambia molto negli equilibri di carattere generale. Anche perché Rutelli è abituato a ragionare sulla sostanza, più che sulle etichette. Il problema, infatti, sorge alla vigilia di scelte importanti per l’eurogruppo riformista, come la candidatura del nuovo Presidente della Commissione europea (i moderati del PD sono contrari alla riconferma di Barroso), di quello del Parlamento europeo o degli indirizzi di politica economica da portare nell’assise di Bruxelles. La confluenza con i socialisti, quindi, è difficoltosa fuor di etichetta.
Cosa accadrà a quel punto? Difficile a dirsi. Ma l’uscita dell’ala moderata del PD dal partito stesso lascerebbe campo libero a D’Alema per costituire, finalmente, il tanto agognato partito socialdemocratico che c’è in Europa ma che manca in Italia; con il piccolo problema, però, che questi partiti perdono ovunque in Europa, e anche sonoramente. D’altronde, costruire delle alchimie partitiche innovative, ora che il bipartitismo è tramontato, non è semplice. Numeri alla mano (ben lo ha dimostrato D’Alimonte sul Sole 24 Ore), anche l’alleanza tra PD e UDC non basta a sconfiggere Berlusconi. E allora?
E allora si tratta di stabilizzare quegli elettori scontenti e ondivaghi che hanno votato due settimane fa per Di Pietro, per una Sinistra radicale che non ha superato il 4%, per la lista Bonino o che semplicemente si sono astenuti. Quello è il bacino elettorale più interessante. A quell’elettorato dovrebbe corrispondere l’identikit del PD che verrà.