Proseguono gli scontri in Iran. Ieri è stata giornata di lutto per le vittime delle manifestazioni dei giorni scorsi; nel frattempo, i Guardiani della Rivoluzione invitavano a isolare i «nemici dell’Iran» che creano disordine nel Paese.
Naturalmente non ci si può attendere che il riconteggio delle schede cambi l’esito annunciato delle elezioni; ma secondo Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano ed editorialista de La Stampa, la situazione, se dovesse farsi ancora più confusa, potrebbe anche generare sorprese.
Professor Parsi, Moussavi e i ribelli hanno dunque qualche speranza di ottenere qualcosa, o si tratta invece solo di una grande azione dimostrativa che finirà nel nulla?
Le speranze non sono tante, però non sono da escludere in assoluto. Non escluderei, cioè, la possibilità che si arrivi ad un’evoluzione positiva dei fatti. Se le manifestazioni vanno avanti a lungo e il regime continua ad essere costretto ad un’azione violenta, la situazione può diventare imprevedibile, e il regime mostrerà sempre più le proprie crepe. Anche perché il bersaglio di Ahmadinejad non è più solo Moussavi, ma sono anche Larijani e Rafsanjani. Si tratta di bersagli grossi: non gli basterà far fuori Moussavi per chiudere la partita.
Il regime che speranza ha di uscirne bene?
Perché il regime possa avere qualche chance di successo dovrebbe riuscire a far cessare le manifestazioni – che certamente non cesseranno fino al pronunciamento ufficiale dopo il riconteggio, e che probabilmente continueranno anche dopo – con il minor spargimento di sangue possibile. Ogni morto in più, infatti, crea un aumento delle proteste, e quindi una maggiore instabilità.
Moussavi rappresenta veramente un’alternativa ad Ahmadinejad, o il fatto di essere anch’egli così legato a Khamenei lo rende una figura dello stesso sistema?
Tutto è cambiato da lunedì, dal giorno dopo le elezioni, e dalla proclamazione estremamente rapida dei vincitori. Da quel momento in poi non possiamo più parlare del regime come ne parlavamo prima: la frattura tra diversi attori si è acutizzata. Certo, Moussavi non è a mio avviso né un liberale né un riformatore. Ma il problema è che ormai c’è una riarticolazione dei poteri tra Ahmadinejad e Khamenei: il potente ora è Ahmadinejad, mentre Khamaeni si è bruciato col pronunciamento, ed è diventato il sodale di un uomo di mano. La sua autorevolezza se n’è andata. Tutti questi personaggi, in effetti, si iscrivono all’interno di quella che è la Repubblica islamica iraniana. Quello che è da vedere è se, proseguendo le manifestazioni, non emerga qualcuno in grado di portare il paese fuori dalla logica del regime. Cosa improbabile, ma non impossibile.
Se invece questo non dovesse succedere?
Anche se non emergesse nessun elemento di novità, ci troveremmo comunque con un regime Ahmadinejad-Khamenei molto indebolito; se dovesse invece prevalere un asse Rafsanjani-Larijiani, magari con un recupero di Khatami, allora il regime cambierebbe, diventerebbe più “soft”, e avrebbe però una vita più lunga.
Come inciderà la situazione di tensione di questi giorni nel rapporto tra Iran e Usa e tra Iran e Russia?
Il regime si è indebolito internamente, e questo avrà naturalmente conseguenze anche in politica estera. Nonostante le debolezze interne ci fossero anche in passato, l’Iran è comunque stato in questi anni uno dei tre attori importanti della regione, insieme a Israele e Turchia. Con quello che è successo dopo le elezioni, quel mix di consenso popolare da una parte e di autorità religiosa dall’altra si è rotto, e ha portato il disordine interno oltre a una certa soglia. L’Iran avrà difficoltà grosse, quindi probabilmente aumenterà l’aggressività esterna, per cercare di compensare questa debolezza. Un atteggiamento che non darà effetti di rafforzamento all’esterno.
Perché?
Perché in realtà abbiamo già visto un segnale forte e irreversibile della debolezza esterna dell’Iran, cioè le elezioni libanesi. Hezbollah ha ottenuto solo i voti che doveva ottenere; i voti che doveva prendere in più, e che avrebbero dovuto portare il Libano nell’orbita iraniana, sono venuti a mancare. Questo è il segno del fatto che l’Iran, per quanto possa fare, non riesce a ribaltare quella situazione: quello è il suo massimo. E non è abbastanza. Quel fallimento, unito ai disordini interni, porta l’Iran ad essere un attore molto ridimensionato. Se ci fosse una leadership forte capirebbe che è il momento di trattare: quando c’è la risacca che ti porta indietro, bisogna capire che è meglio trattare e fissare un punto. Sarà un punto più indietro a dove sei oggi, ma è più avanti di dove sarai domani se non tratti. Inoltre il regime iraniano ha violato le sue stesse regole, e non è più affidabile nelle trattative con l’esterno.
In cosa consiste questa violazione delle regole interne?
Per capire, quello che è successo in Iran è come se la regina di Inghilterra fosse entrata nel processo politico del suo Paese; o come se la Corte suprema degli Stati Uniti fosse entrata nel processo politico-partitico. Questo rispetto all’equilibrio precedente cambia tutto, e crea un assetto istituzionale nuovo. Quale sarà? La prospettiva più probabile è che quel “partito dei reduci” che è il partito di Ahmadinejad rischi di vincere; ma il regime di Ahmadinejad non sarà certo quello di Khomeini. Siamo dunque in una situazione che apre scenari molto delicati e instabili.
Uno dei temi che rendevano delicato l’incontro tra Obama e Berlusconi era anche la posizione dell’Italia rispetto all’Iran, non gradita agli Usa: è cambiato qualcosa dopo l’incontro?
Su questo punto specifico non è cambiato niente. Dico anche che Frattini sbaglia nel ribadire in questi giorni l’invito al ministro degli esteri iraniano al G8 di Trieste. Già era sindacabile il fatto di invitare l’Iran a quel simposio; così è anche una mancanza di rispetto per la libertà e la democrazia. È vero che dobbiamo trattare con tutti: ma mentre in Iran sparano e uccidono gli studenti, non si può ribadire quell’invito.