Un successo del referendum, spiega Franco Bassanini, oltre a non risolvere i problemi dell’attuale legge elettorale, darebbe ad essa la legittimazione del voto popolare. Assestando un duro colpo alla possibilità di fare una vera riforma. «Pretendere di spingere verso il bipartitismo col solo premio di maggioranza – spiega il costituzionalista – col risultato di dare a un partito e al suo capo, che magari vince col 35 per cento, una maggioranza assoluta che gli consente di eleggere da solo i presidenti di Camera e Senato e di cambiare da solo la Costituzione rappresenta senz’altro una compressione del pluralismo democratico. E ne soffrirebbe il pluralismo sociale». Nel dicembre del 2006 Bassanini, uno dei più eminenti fautori del referendum, si dimise dal comitato promotore.
Professor Bassanini, secondo lei una vittoria del sì risolverebbe le criticità dell’attuale legge elettorale?
Sicuramente no. Il Porcellum è giustamente criticato da gran parte degli italiani per alcune buone ragioni, ma il referendum non le risolve. Il primo difetto dell’attuale legge elettorale è che con le liste bloccate deputati e senatori non sono scelti dai cittadini ma nominati dalle segreterie dei partiti. Il secondo difetto è che spezza il rapporto, proprio di tutte le democrazie occidentali, tra gli eletti e il territorio. E il terzo difetto è l’essere un sistema – unico al mondo – proporzionale con premio di maggioranza. Mentre i sistemi maggioritari di solito hanno il collegio uninominale e c’è un confronto diretto in cui chi vince porta a casa il seggio, i candidati di un partito possono avere molto meno del 50 per cento dei voti ma ottenere la maggioranza grazie al premio.
Mentre il referendum?
Non affronta il problema della scelta degli eletti da parte degli elettori; non introduce le preferenze e non introduce il collegio uninominale. E siccome dà il premio di maggioranza non alla coalizione ma al partito, riduce ancor più il pluralismo politico.
Questa è un’obiezione molto forte che è stata rivolta ai referendari: quella di volere un sistema che tende ad una bipartizione forzata dell’elettorato e dei partiti che lo rappresentano.
Sì, perché non c’è più una coalizione nella quale l’elettore può scegliere Pdl o Lega, Pd o Idv. È spinto verso una scelta binaria, mentre in Italia le famiglie politiche sono certamente più di due. L’Udc è un’espressione politica che su molte cose può essere d’accordo col Pdl, ma che si trova in radicale contrapposizione con la Lega sull’immigrazione. Allo stesso modo l’Italia dei Valori è una scelta diversa rispetto a quella del Pd. È certamente un bene che un sistema elettorale non favorisca la frammentazione, ma per quello basta una buona clausola di sbarramento, come in Germania.
Gli effetti perversi di una vittoria del sì sarebbero davvero, come dicono alcuni critici, un pericolo per il mantenimento del sistema costituzionale?
Pretendere di spingere verso il bipartitismo col solo premio di maggioranza, col risultato di dare a un partito e al suo capo, che magari vince col 35 per cento, una maggioranza assoluta che gli consente di eleggere da solo i presidenti di Camera e Senato e di cambiare da solo la Costituzione è una forzatura e rappresenta senz’altro una compressione del pluralismo democratico. Ne soffrirebbe il pluralismo sociale, che al primo e strettamente connesso.
Sono circa sessanta i referendum abrogativi indetti fino ad oggi. A suo modo di vedere c’è una crisi dell’istituto referendario?
Sicuramente c’è un problema che ha radici lontane. Una cosa sono i referendum che prospettano scelte abbastanza semplici: un quesito sul divorzio, per esempio. Il che non vuol dire che i problemi sottostanti e le decisioni non siano complesse. Ma già pronunciarsi sulle centrali nucleari sarebbe molto più difficile. Poi gli italiani per due referendum hanno votato massicciamente per la soppressione del ministero dell’Agricoltura, ma il ministero dell’Agricoltura è rimasto. Infine sono arrivati referendum fortemente manipolativi, nei quali si modificano singole parole di testi molto, troppo complessi.
Qual è allora il referendum per il quale non potremo andare a votare?
Se il referendum fosse stato: vogliamo sopprimere o no la legge elettorale vigente, il cosiddetto Porcellum? In tal caso non sarebbe stato difficile raggiungere il quorum perché la scelta sarebbe stata relativamente semplice. Il parlamento sarebbe stato chiamato a scrivere la nuova legge elettorale sapendo che i cittadini, un sistema che non consente loro in nessun modo di valutare le persone dei candidati perché hanno invece davanti liste di persone che si votano in blocco, non lo vogliono.
Esiste però la possibilità di abrogare le preferenze multiple.
Sì, ma resta il fatto che si interviene su un particolare della legge, mentre gli altri quesiti referendari, che sono più rilevanti, spostano il premio dalla coalizione al partito, peggiorando ulteriormente una legge sbagliata. Votando sì non si abroga nessuna legge – come dicono alcuni tra i promotori – ma si mantiene la legge in vigore modificandone tre punti senza che le criticità più gravi vengano minimamente toccate. Ed è un fatto come questo allora a mettere in crisi l’istituto referendario, perché l’elettore è chiamato a fare una scelta che non è chiaramente comprensibile.
Come mai il referendum – ma è forse una sorte comune ad altri referendum del passato – non è riuscito a sottrarsi alla strumentalizzazione politica?
Guardi, io stesso sono stato tra quelli che sono andati in Cassazione a depositare la firma per questo referendum. Ma con Segni e Guzzetta, in quel momento, l’accordo era: utilizziamo questo referendum soltanto per chiedere alla gente di pronunciarsi, in modo forte, contro l’attuale sistema elettorale, cioè usiamo il referendum come rivoltella sul tavolo per convincere il parlamento a cambiare la legge elettorale. E se dovessimo arrivare al referendum diremo subito che la legge che ne uscirebbe non è buona e non risolve i problemi del Porcellum.
Poi cos’è accaduto?
Dopo poche settimane – io come Enzo Cheli, Sandra Bonsanti e altri – ci siamo accorti che in realtà nel comitato, nonostante quella fosse l’intesa iniziale, molti cominciavano a dire no, e a difendere il referendum come strategia per introdurre il bipartitismo. E a quel punto ci siamo dimessi dal comitato promotore. Ben consapevoli che si andava delineando un’eventualità molto grave.
Quale?
Il rischio di ottenere un risultato opposto rispetto a quello di una vera riforma e per di più legittimato dal voto popolare. Perché oggi quella legge è vigente ma è il frutto di un colpo di maggioranza, ed è stata in fondo sconfessata anche da una parte dei suoi autori. Se il referendum facesse il quorum – ci dicemmo allora – avremmo una legge che nella sua nuova formulazione, non molto diversa dalla precedente, sarebbe legittimata dal voto popolare! Quindi sarebbe diventato difficilissimo cambiarla, perché sarebbe stato possibile dire – e puntualmente lo hanno già fatto Cicchitto e Gasparri: ma che volete? Gli elettori l’hanno approvata, sono stati corretti quei pochi punti che non andavano e adesso c’è una legge che non è più solo l’imposizione di una parte politica, ma ha avuto il voto della maggioranza degli elettori. Un esito che a priori non mi sono sentito di sottoscrivere.