A Teheran è scontro aperto tra i sostenitori del riformista Mir Hossein Mousavi e la guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei. La protesta cominciata come contestazione delle elezioni presidenziali del 13 giugno e della vittoria attribuita ad Ahmadinejad si è trasformata in un processo per molti versi imprevedibile e incontrollabile dagli stessi protagonisti. Un processo dal quale l’Iran potrebbe uscire molto cambiato. L’opinione di Ennio di Nolfo, professore emerito di Storia delle Relazioni internazionali nell’Università di Firenze.
Dopo il discorso di Khamenei di venerdì scorso, col quale la guida suprema dell’Iran ha accreditato la vittoria di Ahmadinejad, e la manifestazione di sabato, gli scontri si sono intensificati. Cosa può accadere?
Difficile prevederlo perché la situazione si evolve di continuo. Sottolineo però alcuni fatti che mi sembrano inoppugnabili. Se trent’anni fa Khomeini avesse fatto un discorso come quello di Khamenei la reazione sarebbe stata completamente diversa. Il che vuol dire che il suo consenso è dimezzato. L’acuirsi delle proteste di piazza è la conferma che l’Iran è nel mezzo di uno scontro di potere, che vede contrapporsi Rafsanjani e Moussavi ad Ahmadinejad e Khamenei. L’arresto di Faezeh Hashemi, attivista e figlia di Rafsanjani, dimostra la volontà di quest’ultimo di abbattere Khamenei.
Le proteste per la presunta irregolarità del voto di sabato 13 giugno hanno fatto esplodere dunque una contraddizione nel sistema di potere iraniano? Quale?
Siamo davanti ad una crisi molto profonda della società e del sistema di potere iraniano e il voto del 13 giugno è stato il detonatore. Nella crisi Khamenei rappresenta il momento islamico e Moussavi e Rafsanjani il momento di trasformazione basato sulla forza militare. C’è in atto una lotta profonda tra chi vuole instaurare una dittatura clericale ispirata al fondamentalismo islamico – quella che abbiamo visto finora – e chi, pur senza voler distruggere il ruolo del fondamentalismo, intende sovrapporre agli islamici i militari. Lo scontro è radicale perché le personalità che rappresentano il passato e il presente, cioè i vari Khamenei, Rafsanjani, Moussavi non incarnano soltanto una visione del potere, ma si collocano alla testa di famiglie, clan, veri e propri gruppi che si combattono.
E dire che all’indomani del voto sembrava che la contestazione riguardasse la legittimità del vincitore – il che non è poca cosa – ma non chiamasse in causa il fondamento del potere. È così?
Sì. È in discussione il primato del potere clericale degli ayatollah rispetto al potere dei laici. Spiegare quello che accade in Iran è molto complesso perché, sotto la superficie, il paese soprattutto in questi ultimi anni è cambiato in modo rapidissimo. È evidente che non c’è la possibilità di ritorno ad un regime monarchico e autoritario, tuttavia è chiaro che dalla rivoluzione l’Iran è profondamente cambiato. I ragazzi iraniani di oggi non sanno chi era lo scià, se non per averlo letto sui libri.
Gli esponenti della rivoluzione però fanno ancora politica.
Certamente. I pasdaran finora si sono appoggiati sulle forze sociali della componente anti-scià. Per esempio tra i candidati alla presidenza, anche se ha avuto meno dell’1% dei voti, Mohsen Rezaei è stato a lungo uno dei comandanti della guardia rivoluzionaria. Mohammed Bagher Ghalibaf è stato anch’egli comandante della guardia rivoluzionaria ed è uno dei principali rivali di Ahmadinejad.
Qual è la posizione di Ahmadinejad in questo momento?
Tutto il potere di Ahmadinejad è appoggiato da Khamenei, ma chi condiziona l’azione dello stesso Khamenei e a maggior ragione di Ahmadinejad è proprio Rafsanjani, la guida dell’assemblea degli Esperti che costituisce il vero fulcro del potere. In questo momento Rafsanjani sta cercando di misurare fino a che punto è in grado di muovere questo consiglio, il quale ha perfino il potere di delegittimare Khamenei. A maggior ragione Ahmadinejad è debole e non è in grado di controllare la situazione. A meno di fare grosse concessioni.
Quali potrebbero essere?
Il riconteggio dei voti, ma in tal caso il prestigio di Ahmadinejad è probabilmente destinato a dissolversi. Se invece Ahmadinejad resta al potere, vi rimane sulla base del fatto che l’autorità religiosa non è in grado di prendere una decisione e che Rafsanjani non è in grado di portare fin in fondo la sua offensiva. Col risultato che le due tendenze citate – a fare dell’Iran uno stato teocratico o una dittatura militare – non riescono l’una ad avere la meglio sull’altra.
Anche se i giochi sono aperti, quello che sta avvenendo in Iran porterà ad un riequilibrio delle forze nella regione?
A mio avviso la profonda crisi di transizione interna che l’Iran sta attraversando non cambia la sua politica internazionale. La cultura nazionalista e la volontà di essere la principale potenza del Medio oriente, oltre al fatto di essere l’unico paese che non è mai stato sconfitto da nessuno, tutto ciò continuerà ad alimentare il suo nazionalismo antioccidentale. L’unico fattore che potrebbe alterare l’equilibrio regionale sarebbe una decisione unilaterale di Israele.
Perché unilaterale?
Sarebbe unilaterale se non tenesse conto della “risposta” di Obama alla crisi, cioè del fatto che il presidente Usa non può sbilanciarsi, per non essere giudicato o interventista o troppo debole. Ma non credo che gli israeliani abbiano interesse a farlo. I rapporti tra Iran e Israele sono sempre stati molto buoni.
Molto buoni? È un’opinione singolare.
Sì, lo so benissimo. Sebbene Ahmadinejad dica che Israele non deve esistere, non bisogna dimenticare che durante la guerra Iran-Iraq degli anni ’80 Israele ha aiutato l’Iran.
Frattini ha ribadito l’invito rivolto all’Iran a partecipare al G8 di Trieste, ma c’è polemica. È giusto o sbagliato?
Né l’uno né l’altro. È un rischio calcolato. Che l’Iran partecipi al summit di Trieste è un bene perché chiunque venga è costretto a sentire la voce degli altri e in qualche modo deve esporsi. Verso l’esterno, ma con evidenti ripercussioni verso l’interno. E la posizione che l’Iran prenderà non potrà che portare ad un chiarimento di quello che vogliono gli iraniani.