C’è stato, l’effetto mutanda sul ballottaggio? C’è stato, come c’era stato sul primo turno. È un bene, che il centrodestra vinca nettamente sul totale delle amministrazioni in cui si è votato rispetto ad anni fa, ma al contempo non stravinca, frenato dall’effetto mutanda? È un bene. Il referendum? Non ha mai avuto una vera possibilità di raggiungere il quorum, come sempre quando i partiti non s’impegnano, e sui tre quesiti non si è impegnato praticamente nessun partito. In sintesi, le mie osservazioni sulla tornata elettorale sono queste tre. E da esse faccio discendere le due conclusioni che auspico, pur senza molte speranze che avverranno davvero.
È un fatto, come ha osservato Berlusconi, che il Pdl governava solo 9 province delle 62 in cui si è votato, e che oggi sono diventate 34. Come è un fatto l’avanzata netta nei Comuni capoluogo, da 5 a 14 su 30 dove si è votato. Detto questo, smentire che l’avanzata del centrodestra non sia più straripante significa negare l’evidenza. Quei tre-quattro punti in meno sulle aspettative Pdl registrati alle europee si sono puntualmente rivisti ieri in ballottaggi come quelli di Torino, Bologna, Firenze, Fermo, Rieti, Bari e nelle province calabre. La conquista di Prato non può far dimenticare le candidature sbagliate a Bologna e Firenze. La vittoria Pdl di Venezia non oscura la considerazione che persino nel Nord, a cominciare da Milano dove la sinistra perde di un soffio, il Pd esce da questa sconfitta annunciata con l’idea di avere comunque una possibilità, in vista delle prossime politiche.
Per il Pdl – la Lega non è sostanzialmente toccata dalle polemiche su Berlusconi – in definitiva non dovrebbe essere poi un gran male, vincere ma continuare a sentire sul proprio collo il fiato di un’opposizione dura e determinata. L’alternativa è quella di gridare al complotto – per chissà quanto tempo: Repubblica, Pd e Di Pietro, magistrati e compagnia di giro non demorderanno, visti gli effetti. Oppure far parlare atti di governo concreti e nuova capacità di concentrarsi sui risultati. La crisi economica del Paese, che di qui all’autunno conoscerà un rincrudimento delle sue conseguenze manifeste, dovrebbe spingere in questa seconda direzione. Ma c’è di mezzo la piena ripresa da parte di Berlusconi di una sincera e coerente consapevolezza di un diverso stile, nelle sue funzioni pubbliche come in un privato ormai aperto a qualunque voyeurismo. Non so esprimere, in proposito, valutazioni ispirate a una logica della probabilità. Contro Berlusconi, nelle sue vicende private come in molte delle sue scelte quando era capitano d’impresa, gioca quel potente misto di ingenuità e narcisismo che connota in maniera imprescindibile la sua stessa natura. So che a moltissimi risulta ancor oggi difficile crederlo. Ma chi si ritrovò iscritto alla P2 senza sapere neanche che cosa fosse e per fare un piacere innocente a quell’altro sprovvedutone brillante di Roberto Gervaso, finisce pure per aprire le porte di residenze, ville, e bagni, a torme di signore di cui ignora mandanti e identità, intenti e rischi. Non è un presunto cinismo del potere, a spingere Berlusconi contro se stesso. È tutto il contrario di uno sprezzante oligarca russo. È la sua ingenuità, alla quale pochi credono, e ancor meno sono oggi i disposti a perdonare.
Le due conclusioni riguardano una l’opposizione, l’altra governo e maggioranza. Ragionevolezza vorrebbe che il Pd traesse da questo risultato, comunque per esso inferiore alla più tetre aspettative di un paio di mesi fa, alcuni coerenti esiti. Primo. Circoscrivere Di Pietro, invece di inseguirlo dandogli di fatto ragione, e di conseguenza continuando a regalargli voti. Secondo: assumere scelte tali da continuare con più convinzione al Nord la via indicata da Penati e Chiamparino, in nome non di una pura prospettiva di sopravvivenza, ma di un ribaltamento del centralismo e della rassegnazione alla ritirata nelle zone storiche del centro e del sud. Terzo: evitare una nuova guerra per bande, come quella che è sembrata in procinto di scoppiare all’indomani del primo turno, con cinque diversi candidati già pronti a contendersi la segreteria in autunno.
Il governo, al contrario, può far finta che l’attuale problema-Berlusconi non esista, e allora s’indebolirebbe. Oppure può trovare il modo, insieme al premier, per affermare che, come avviene per alcuni milioni di italiani, questo non è più tempo di feste, distrazioni e scivoloni. Cinque ministri almeno, da Tremonti a Scajola, da Sacconi a Brunetta alla Gelmini, possono mettere in cantiere una decina d’interventi che costruiscano la base per evitare che, quando il commercio mondiale ripartirà, l’Italia resti al palo rispetto ai concorrenti che riprendono a camminare, come capita di solito in occasioni delle crisi. Nel primo anno di governo Berlusconi ha ballato da solo, toccando l’apice nelle due prime settimane del post terremoto abruzzese. Ora c’è bisogno che l’intero corpo di ballo faccia vedere di che pasta è fatto. Chi si accontenterà di stare in seconda o terza fila, magari per evitare gli schizzi di fango, darà all’opposizione il senso crescente di aver ripreso a risalire la china fino al punto di ricandidarsi a vincere, continuando a martellare. In quel caso, ci attenderebbe un anno di politica cupa e di aspri accapigliamenti. Sai che divertimento.