Superamento del bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari, sfiducia costruttiva. Ecco cosa occorre introdurre nella Costituzione, secondo il vicepresidente del Senato Vannino Chiti, per dare al paese «un governo parlamentare forte». Insieme ad una legge elettorale che consenta ai cittadini di scegliere una maggioranza e i propri rappresentanti, senza liste bloccate. Il referendum? È netto, Chiti: «gli italiani hanno detto no a un bipartitismo imposto per via referendaria, estraneo non solo all’esperienza, alla cultura e alla storia italiana, ma anche a gran parte di quella europea». Esattamente – aggiunge – come il presidenzialismo.



Vicepresidente Chiti, il referendum non ha raggiunto il quorum. Qual è la lezione?

La lezione è che i cittadini italiani chiedono che sia il parlamento a trovare una soluzione su temi come le leggi elettorali, e con un’ampia intesa tra le forze politiche. E che c’è una maggiore fiducia nel parlamento, nonostante tutti i fenomeni preoccupanti di sfiducia e distacco. Poi gli italiani hanno detto no a quello che chiamo bipartitismo coatto: un bipartitismo imposto per via referendaria, estraneo non solo all’esperienza, alla cultura e alla storia italiana, ma anche a gran parte di quella europea.



Il pericolo di un peggioramento ulteriore della legge elettorale è scongiurato. E ora?

Ora, poiché la legge elettorale, come gli aggiornamenti della Costituzione, è qualcosa che riguarda non la maggioranza o un partito ma tutti i cittadini italiani, è saggio che sia ricercata un’intesa tra le forze politiche in parlamento per realizzare questi obiettivi. Alcune basi già ci sono, occorre la volontà politica per poter arrivare a un esito positivo.

Proprio ieri Berlusconi ha detto che gli piacerebbe il presidenzialismo ma ha riconosciuto che non si può fare con un disaccordo così forte. Lei che ne pensa?



Al presidenzialismo sono contrario perché non corrisponde né alla storia né alla cultura del nostro paese. Poi quando si parla di presidenzialismo non si capisce bene di che si parla: spesso si fa riferimento al modello francese, ma non mi pare che sia un modello istituzionale esportabile. È troppo legato alle vicende storiche della Francia. Io sono per un governo parlamentare forte, come quello di Germania e Spagna.

Quali ne sarebbero i presupposti?

Servono tre punti: diventa presidente del Consiglio il candidato proposto dal partito della coalizione che vince le elezioni e viene eletto presidente del Consiglio dal parlamento: così avviene in Spagna e Germania. In secondo luogo il presidente del Consiglio non soltanto porta al capo dello stato la proposta dei ministri, ma ha anche il potere di proporre revoche dei singoli membri del governo. Questa facoltà darebbe al primo ministro uno strumento effettivo di guida del governo. E il terzo aspetto per un governo parlamentare forte è la sfiducia costruttiva.

Per dare più stabilità al governo.

Sì. È importante perché vuol dire che un presidente del Consiglio eletto dal parlamento non cade su una singola legge, ma resta in carica o fino a quando ci sono nuove elezioni, o fino a quando non si è costruita in parlamento una maggioranza diversa su un altro candidato alla guida del governo. Non si riflette mai abbastanza sul fatto che Kohl ha fatto l’unificazione della Germania con due seggi di maggioranza, e che il Pp nel primo governo Aznar e il Psoe nei due governi Zapatero non avevano la maggioranza assoluta, ma una maggioranza relativa. Ma una volta che il presidente del consiglio è eletto, il governo risulta democraticamente forte e i parlamentari non pensano a fare trabocchetti sulle leggi o sulle mozioni.

L’alternativa potrebbe esser quella di metter mano al bicameralismo. L’ipotesi, hanno detto i giornali, avrebbe il consenso della sinistra.

Per quel che riguarda il superamento del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei parlamentari, c’è da anni un accordo tra le forze politiche e si sarebbe già potuto votare un ddl non oggi, ma ieri! Si tratta di riprendere i punti sui quali si era trovata un’intesa nella precedente legislatura e andare avanti.

L’esito del voto amministrativo potrà interferire nel cammino delle riforme?

In un paese maturo non deve e non può interferire. Dobbiamo abituarci a considerare i voti per quello che sono. È evidente che quando si vota per tanti comuni e province c’è un significato politico su cui riflettere e questo è doveroso, ma dal punto di vista dell’impatto concreto si cambiano o si confermano le amministrazioni comunali e provinciali. Il dovere del parlamento non è quello di fare politica con le riforme o di strumentalizzare l’esito di una consultazione.

Rimane il fatto che il Porcellum non è una buona legge.

Il parlamento ha il dovere di fare una nuova legge elettorale che garantisca a ognuno di noi in quanto cittadini di scegliere una maggioranza di governo e al tempo stesso di scegliere realmente i nostri rappresentanti nelle istituzioni, senza votare per liste bloccate. Il referendum avrebbe potuto essere questo, ma non si era proposto questo obiettivo. Avrebbe potuto proporre di cancellare il premio di maggioranza indiscriminato, o tentare di dar forza soltanto al terzo quesito, dedicato alle candidature multiple. In realtà queste buone intenzioni erano secondarie rispetto all’intenzione principale di spingere verso il bipartitismo.

Facciamo un’ipotesi: un proporzionale con soglia di sbarramento. Che ne dice?

Nella precedente legislatura, pochi giorni prima della crisi del governo Prodi, era stata raggiunta un’intesa che prevedeva una legge elettorale proporzionale con sbarramento al 5%. Si era trovato un accordo anche su un aumento del numero dei collegi, in modo che ci fossero non molti candidati per ogni collegio: si parlava non a caso di candidati “sub provinciali”. Lo stesso Marini andò alle consultazioni per tentare di formare un governo portando una proposta di legge basata su questi elementi. E c’era la possibilità di fare le modifiche alla Costituzione che servivano: superamento del bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari, sfiducia costruttiva.

È un’ipotesi ancora in piedi?

Sarebbe una riforma alla portata di questa legislatura. Certo occorre la volontà politica di farla. È un’ipotesi di lavoro che va tenuta ferma, preservandola dalla lotta politica quotidiana, che è legittima ma che appartiene ad un altro piano. Non quello delle riforme che interessano tutti.