Il tempo delle analisi post-voto si è ormai concluso e riprendono quota quelle sulle riforme, sui partiti e sugli scenari possibili. Ma tutto questo rischia di nascondere e far dimenticare che ci troviamo in una crisi della politica molto profonda, che è crisi della nostra ragione e della nostra libertà. «Siamo dentro ad una grande idolatria» – dice Pietro Barcellona, filosofo del diritto, che a questi e altri temi, riguardanti non solo la città dell’uomo ma anche il suo bisogno di Dio, ha dedicato un libro appena uscito, “L’ineludibile questione di Dio”, scritto con Francesco Ventorino.



Le ultime elezioni amministrative e il referendum si sono svolti in un clima che ben poco ha a che fare con la politica. I veri vincitori sembrano tre: Lega, Italia dei Valori  e astensionismo.

Di analisi se ne possono fare a non finire, ma è un terreno che non amo più. È facile guardare questi risultati e dire: vincitori sono Lega e Di Pietro, mentre comincia una fase di difficoltà di Berlusconi. Ma questa è sociologia. Il problema della politica, nell’epoca che viviamo, è una questione più profonda.



Qualcuno, però, dovrà governare.

Certamente. Ma non è di questo che stiamo parlando. La politica, per come io l’ho vissuta e concepita, è sempre un insieme di “radicalismo” ideale e allo stesso tempo di una realistica soluzione dei problemi che si presentano nella vita quotidiana. Queste componenti non possono essere scisse. Oggi invece ci troviamo su un terreno fragilissimo, fatto di parole e chiacchiere, dove manca sia il realismo riformista, sia il radicalismo ideale.

Manca una vera preoccupazione per il bene comune?

Vede, il dramma è che oggi dopo aver detto “bene comune” in realtà non abbiamo ancora detto nulla. Sono diffidente verso l’espressione bene comune, perché penso che l’uomo trovi rapporto con l’altro anche e soprattutto attraverso un rapporto interiore con se stesso. È sviluppando questa dialettica esistenziale tra autonomia, amore, attrazione, relazione, che si sviluppano tanti terreni comuni, e non un bene comune ridotto ad astrazione. Credo che ciascuno di noi debba avere a cuore non un “bene”, ma uno spazio.



Uno spazio, dice. Come l’agorà greca?

Sì. Lo spazio in cui è possibile che ognuno si ritrovi con se stesso e con gli altri. Finiamo invece per pensare il bene comune come una “cosa”, un edificio che serve interessi collettivi; una scuola, per esempio. Mentre lo spazio comune è uno spazio simbolico in cui accade che ognuno si presenti, pubblichi le proprie emozioni, le proprie speranze e incontri le speranze e le emozioni degli altri. La polis non era definita da un bene comune, ma da uno spazio pubblico in cui si rappresentava la vita degli uomini. Le stesse gare tra i grandi tragici erano vissute da tutto il popolo come un momento di verità collettiva. Tutto questo non c’è più.

Che cosa dunque ha tradito questo spazio simbolico?

Lo ha tradito ciò che Maria Zambrano ha chiamato l’idolatria del nostro tempo, cioè l’aver messo il denaro, il successo e il potere al posto di tutto. Non riesco a capire l’adesione di molte persone, che hanno anche motivazioni religiose o grandi ideali, a movimenti politici che sono appiattiti sull’esistenza quotidiana senza nessuno spazio di trascendenza. La politica, come tutto quello che facciamo, non ha senso se si esaurisce nell’istante e nel suo significato utilitaristico. Ma se si rimane preda, come sta accadendo, della frammentazione e della ricerca autarchica di godimento che segna il nostro tempo e la nostra personalità, non ci può essere nulla, non solo la politica ma nemmeno la cultura. Siamo in una nuova epoca del vitello d’oro. Quando questo accade, puntualmente gli uomini si abbandonano a orge e misfatti, a gelosie e invidie.

Che cosa può restituire spazio all’umano?

L’abolizione del vitello d’oro. La realtà è che siamo dentro ad un’idolatria che ci sta distruggendo e che non sta annientando solo la politica. Come può accadere – e leggo sul giornale di oggi – che una ragazza venga picchiata nell’indifferenza generale? Come può una madre o un padre, nell’odio per il compagno, ucciderlo insieme al figlio? Tutte le società hanno visto delitti mostruosi e passioni incontrollabili, ma c’era anche la consapevolezza di un destino che dirige sentimenti e passioni verso obiettivi trasformativi. Oggi invece tutto resta com’è, condannato ad un’esistenza miserevole.

Ma è proprio certo che manchino punti saldi ai quali ancorare la convivenza politica? Il presidente Fini non si stanca di ribadire l’importanza della laicità e della neutralità della legge.

Non sono affatto punti fermi. La laicità può essere una parola vuota come una parola ricca di impegno. Il vero senso della laicità sta nel fatto che io sono un portatore di domande, un interrogante, non uno che vuol negare a chi crede di manifestare le proprie opinioni. Il domandare determina sempre un’apertura. Chi interroga si attende una risposta, apre una relazione. La laicità come è intesa oggi invece è uno sterile regolamento di condominio, in cui ci sono scale comuni ma non si vuole che un altro bussi alla porta. Francamente è una laicità molto povera, che non conferisce alcuna responsabilità. Lo stesso discorso vale per il diritto.

Crisi del diritto?

Il diritto non è una scrittura astratta da interpretare in modo letteralistico. Io credo che la legge sia un frutto dello spirito che esprime i costumi, le idee e sentimenti di un gruppo umano, e non una lettera astratta. Il che non vuol dire che non abbia una formula, ma questa formula non è una mannaia che separa i buoni dai cattivi.

Da quindici anni in Italia la giustizia si è insediata dentro la politica. Della politica in crisi lei ha già detto. Lo è anche la giustizia?

I magistrati vogliono dettare le regole alla politica e la politica vuol far lo stesso con la magistratura. Non ci resta che raccogliere i frutti di questo fallimento culturale. Considero Di Pietro un personaggio pericoloso, per la sua visione della politica come linciaggio popolare continuo, ma al tempo stesso non mi piace nemmeno la delegittimazione continua dei magistrati. Non perché io abbia una posizione mediana, ma perché nessuna delle due cose ha a che vedere con la giustizia.

Pensa della giustizia quello che pensa della politica?

La giustizia deve essere uno spazio riservato alla risoluzione dei conflitti all’interno di una città la cui costituzione ordina i movimenti. La giustizia non è il sostituto della città, né può essere il sostituto della politica; alla stessa maniera i governi sono strumenti di attuazione di ciò che una città desidera ma non sono la città. La città comprende sia il compito dei giudici che quello dei governi, mentre assistiamo a giudici e politici che si scontrano in modo violento togliendo alla città lo spazio che le serve per esistere come tale.

Da dove proviene, ancora una volta, la crisi che lei ha descritto?

La globalizzazione ha distrutto gli spazi simbolici. Essa si è fondata su due principi economici: la liberalizzazione di tutti i rapporti, e la privatizzazione di tutto ciò che era pubblico. Tutto è divenuto confusamente privato. Stanno qui le cause di disgregazione della società attuale.

A proposito di questa distruzione, nel suo ultimo libro lei scrive: “il laicismo oggi non è il trionfo della ragione, ma della forza”. Che significa?

La ragione non è la capacità di calcolo, ma un’attitudine dell’uomo a comprendere. A comprendere e non appena a spiegare, cioè a trovare dei meccanismi di causa-effetto. La ragione comprendente – io preferisco chiamarla ragione affettiva – è una ragione che si situa all’opposto del concetto di laicità proposto oggi, uniformato ad una ragione come ambito del calcolabile. Per questa razionalità le differenze sono solo quantitative e i criteri per scegliere risultano drasticamente indeboliti. La conseguenza è che si dilata talmente il concetto di libertà, da diventare arbitrio assoluto, diritto di fare individualmente quello che ti pare.

È certamente la nozione di libertà che oggi è più condivisa, soprattutto tra i giovani.

Lo so bene, perché posso dire di aver fatto dei giovani la mia ragione di vita. Essi sono stati lo stimolo dei miei pensieri e della mia attività e ho allievi che sono ancora interlocutori privilegiati della mia riflessione. Ieri potevano essere preda delle ideologie, oggi lo sono di un silenzio disperato, una disperazione senza voce che li rende apatici. Io credo che ai giovani occorra restituire le motivazioni, perché senza motivazioni non si vive. È questo il vero antidoto al nichilismo di oggi. Amare la vita non è semplice, ma è una delle cose più ardue che noi uomini possiamo fare. E oggi è divenuta una difficile, continua conquista.