Del Pd più che il futuro preoccupa il presente e cioè: che opposizione è in condizione di svolgere nei prossimi quattro mesi? È possibile attivare il “pilota automatico” e cioè andare avanti ripetendo che il Pd ha superato bene la prova elettorale mentre Berlusconi sarebbe in agonia e il Pdl in disfacimento?

Il Pd ha due candidati alla segreteria e ufficialmente, stando al calendario degli incontri separati previsti nei prossimi giorni, ha il suo vertice diviso in quattro gruppi: i bersaniani, i veltroniani, i popolari e i rutelliani. Fino alla fine di luglio c’è tempo per presentare altre candidature che infatti si stanno accavallando e poi l’11 ottobre la convenzione nazionale, il 25 le primarie e presumibilmente il tutto si concluderà il 7 novembre. Quattro mesi in cui l’opposizione – o comunque il suo principale gruppo parlamentare – rimane senza linea precisa e gruppo dirigente pienamente in carica, rappresentano un vuoto politico ed anche istituzionale considerevole, soprattutto se occupati da un’ovvia competitività interna e senza mettere in cantiere nulla di concreto, a cominciare dal sistema di alleanze e di proposte da contrapporre al governo.



Il primo punto riguarda la immediata lettura critica del risultato elettorale e dello stato della maggioranza. Sono temi che non possono essere oggetto di tesi da scrivere oggi e da cominciare a mettere in atto tra quattro mesi.

Berlusconi è stato indubbiamente ammaccato dal siluro a (finora) tre stadi (“ciarpame”-Noemi-D’Addario) che gli è arrivato addosso. Il danno non è solo di “look”. Oggi il premier, ad esempio, non sarebbe in grado di intervenire come ha fatto sul caso Englaro. Ha cioè perso un carisma paternalistico che concorreva alla fiducia popolare che lo circondava. È l’inizio della fine oppure sta invece iniziando il rimbalzo? Il dato di fondo che il Pd non può eludere è che i voti mancati a Berlusconi sono parcheggiati nell’astensionismo. Non c’è nessun segno di spostamento a sinistra ed infatti il Pd continua a scendere pesantemente. Qualcosa del Pdl è andato all’Udc, ma solo nelle europee (in quanto si trattava di eleggere parlamentari che comunque sarebbero finiti a Strasburgo nello stesso gruppo del Ppe) e quel che è andato alla Lega rimane pur sempre nel centro-destra. La campagna scandalistica che ha colpito Berlusconi non ha portato voti al Pd e semmai ne ha aggravato le perdite a favore di Di Pietro. Possono i voti mancati o in fibrillazione del Pdl essere conquistati dal Pd e come?



Si direbbe che confermando tempi così lunghi per la gara alla segreteria del Pd i vari leader del Pd puntino a una vistosa campagna d’immagine intorno alle loro figure come prossimi possibili premier senza preoccuparsi molto della lotta parlamentare. Un simile comportamento alimenta il dubbio che per l’intero Pd il rovesciamento del governo non dipenda da loro, ma sia affidato a vicende extraparlamentari. Sembra che il Pd da un anno, dalla vittoria di Berlusconi alle politiche, sia sotto uno choc da 18 aprile 1948 e che come il Pci di allora tenda ad arroccarsi in una sorta di “Ha da venì Baffone”, sognando un “arrivano i nostri”: ieri l’Armata Rossa, oggi una qualche Procura che bombardi e annienti il Nemico.



Berlusconi non è più sotto choc e ha già messo in moto una controffensiva imperniata sull’azione di governo e sulla politica internazionale. Le misure anticrisi varate che riguardano imprese e famiglie  ne hanno aumentato credibilità e consenso con l’intero mondo imprenditoriale a sostegno.

Da un lato il Pdl sembra sempre meno un “partito di plastica” attraverso una rete di amministratori locali radicati nel territorio, mentre è il Pd che tra “piombini” ed “effetto Sarracchiani” tende sempre più a berlusconizzarsi puntando tutto sulla messa in scena mediatica.

Un segno di vitalità e di prospettiva può invece essere colto nell’esperienza di Filippo Penati che ha perso per un soffio. La conquista della Provincia di Milano da parte di Berlusconi anche se con maggioranza risicata è stato certo un segno di rilancio, ma in questo caso il Pd è caduto in piedi. Penati ha tentato di sperimentare una politica imperniata non sull’antiberlusconismo e che respinge la “cultura del no” dell’estrema sinistra. È già qualcosa, ma non basta se si vuol conquistare qualcosa nei voti parcheggiati nell’astensionismo e aggiungerne altri. Per prospettare un’alternativa credibile di governo occorre rinunciare al veleno della criminalizzazione dell’avversario e della derisione di chi lo ha votato, occorre cioè fare a meno di Di Pietro. Una sinistra senza gruppi di violenti e di antidemocratici può essere un serio problema politico ed elettorale per il centro-destra. Altrimenti si rimane inchiodati all’“Aspettando Baffone”.